Calipso di Montuori Vincenzo



Profilo Critico

“CALIPSO”
La poesia è tratta da “Stati d’animo di Ulisse sulla strada del ritorno per Itaca”, accolta che riguarda “tre donne”: Circe (la bellissima maga che affascina), Nausicaa (l’accorta figlia di re Alcinoo) e Calipso, la “nasconditrice” di Odisseo di cui s’è innamorata. La poesia consta di due sezioni: la prima, contenuta tra due parentesi tonde, rappresenta la voce della ninfa che offre i sensi, ogni giorno differenti, della sua “carne dolce”, arrendevole come una “matura pèsca”, capace di condurre l’eroe in uno stato d’oblio, di sospensione del reale e d’assopimento. È un “inganno”, quella della dea, necessario per rendere accettabile l’offerta di sé e il dono dell’immortale gioventù. La seconda è la risposta di Odisseo: l’eroe greco rivendica il suo essere mortale, rivuole il mare e il dolore, desidera piuttosto “ogni spiracolo di vita” che la “inane infinitudine”, vuole vedere le mani che rivelano il “reticolo di vene”, e il viso farsi maschera. È, questo, un ritorno a casa, alla dimora degli uomini, al “rovello” della memoria che richiama la moglie, il figlio, il lavoro. L’uomo è nel e col tempo, la sua essenza è la mortalità e, come dice con acutezza l’autore, il tempo è “il padrone” dell’uomo che ama, dubita e dispera. Il tema affrontato da Vincenzo Montuori non è dei più facili, ma egli lo sa padroneggiare con ricchezza d’immagini, con richiami letterari e con una scelta lessicale fresca e all’altezza del mito. I versi scorrono con un ritmo incalzante che un’efficace lettura, attraverso accenti e pause, saprà valorizzare, per offrire all’ascoltatore un percorso che va dalla parola-suono alla parola-concetto.
Membro di giuria
Prof. FRANCO PEZZICA

(Sulla fronte se ti soffio
l’inebrio dei papaveri,
assaggerai l’oblio
della mia carne dolce.
T ’innalzerò di baci
una cortina in cuore,
ogni giorno apprestandoti
una blandizie differente;
con un filo di seta
ti sigillerò le ciglia,
che tu non veda l’urlo
degli anni sul mio viso.
Tra le scapole l’incavo
che tu carezzerai
avrà l’arrendevolezza
di una matura pèsca.
E tu l’inganno accetta,
e godi dell’immota
fulgidità del marmo)

Non parlarmi, no, dell’incantamento
della pietra che effigi vane estolle,
sorde ad ogni spiracolo di vita.
S’infittisca agli zigomi la trama
del dolore, diventino le mani
rilevato reticolo di vene,
la contrattura del viso si trasformi
in una maschera che vi aderisca:
sentirò, allora, di esser tornato a casa.
E loderò i solchi che hanno arato
il ventre alla mia donna, le labbra infanti
che hanno disfiorato il seno, lo sguardo
di cerbiatta che anni di solitudine
hanno spento. Li loderò, ché il tempo
è il mio padrone ed ogni frutto gusto
del mio giardino come se fosse l’ultimo,
per lui, infine, amo, dubito, dispero.
Tieniti la tua inane infinitudine,
e lasciami il rovello di memoria
che sia il companatico amaro e vero
con cui mandare giù la mia giornata.