Canzone di Orfeo di Vicaretti Umberto



Profilo Critico

Nel 1953 Alda Merini pubblicava il volume La presenza di Orfeo, nel
quale cantava la parola poetica come strumento principe dell’amore e si serviva di Orfeo, personaggio mitico, che nello stesso rappresenta il mistero e la rinascita. Anche il testo di Umberto Vicaretti canta l’amore in due direzioni o in una sola, in cui si confondono due figure. La prima è la donna, la sua “cara” donna, dai “passi lievi”, dagli “occhi” come porto “sicuro”, “terra promessa” e “fiume d’erba quieta”. È l’amore di ora come allora, quando “da quel giorno chiaro” iniziò il “misterioso gioco delle parti”, è amore che dura perché il cuore ha continuato a palpitare come cosa preziosa. Per questo motivo il poeta invita la sua donna a non “smarrirsi” nel tempo “che si sfalda”. La seconda è la poesia “eterna ammaliatrice sirena” capace di far rinascere l’io e di invitarlo al canto, al canto in un’estasi senza fine. Eterno l’amore, eterna la poesia. I trentatré
versi della Canzone di Orfeo sono ben controllati dalla sicura mano del Vicaretti sia sul piano metrico sia su quello dell’alata scelta linguistica e delle immagini, che risentono di un solido possesso di cultura classica.
Pregio non secondario in una realtà volgare come l’attuale.

Prof. Pezzica

Non temere, mia cara:
il lieve smarrimento che ci prese
non è che la vertigine del tempo,
il perso sguardo che gettiamo in fondo
al lampo azzurro della nostra vita,
a quando ignari non ci apprestavamo
al misterioso gioco delle parti.

Ereditammo da quel giorno chiaro
promesse e voli, un balzo tra le stelle.
Cercammo il vento, ma da quella terra
più non abbiamo dissepolto il cuore
messo a dimora come una reliquia
tra gli ori scintillanti dell’infanzia,
dentro lo scrigno, all’ombra dell’acacia.

Di lì spingemmo al largo, ciurma gaia,
nel mare sconfinato del canale,
velieri favolosi, audaci barche
salpate al vento delle nostre bocche.
Fui mozzo e capitano, Ulisse e Palinuro:
tu eterna ammaliatrice mia sirena,
terra promessa, fiume d’erba quieta.

Porto sicuro al grido mio di nàufrago
furono i tuoi occhi,
che trepida accendesti nella notte.

Perciò ti prego, cara, non smarrirti
dentro il lampo dell’ora che si sfalda.
Torneremo ai crocicchi delle stelle,
a sfogliar ventagli di conchiglie:
tu, scampata Euridice che risali
a un nuovo giorno ed io, rinato Orfeo,
che i passi precedo tui lievi e canto,
senza voltarmi canto gli occhi tuoi.