Continua a respirare di Sensini Beatrice



Profilo Critico

Notte.

Notte fredda, piovosa; notte calda e serena; notte calma, notte brava, notte spenta ma accesa, piena di dubbi, di sorprese, di ricordi, di speranze, di delusioni; notte di sogni fatti a occhi aperti, i più belli e pericolosi, perché mentre sogni lo sguardo resta puntato sul mondo e ce l’hai proprio davanti il confronto con una realtà che, anche nelle tue speranze più rosee, non sarà mai perfetta come quel mondo lì, nella tua testa. Notte triste, fatta di tante piccole cose congiunte a formare un immenso punto interrogativo che, ne sei certo, non se ne andrà tanto presto. Notte spaventosa, piena di ansia, di dubbi, di paure, di angoscia. Tante persone temono la notte, il buio; Luca non ne ha mai capito il perché. A lui piace quella sensazione: non sapere mai cosa aspettarsi, starsene seduto immobile, con il fiato sospeso e gli occhi spalancati sul nulla, un nulla che però potrebbe essere pieno di tutto. Forse, quando la realtà ti fa già così schifo da non poterne immaginare una peggiore, allora cominci davvero a non avere paura di niente. Forse il fatto di essere solo uno sputo agli occhi di questo grande mondo, di non servire a nulla, a nessuno, ha in fondo anche i suoi vantaggi: non si aspetteranno mai niente da te, quindi non avrai niente da perdere. Forse, quando non aspetti altro che il buio per essere te stesso, quando ti nascondi dietro alla giustificazione che tutti, in fondo, alla luce del sole portiamo una maschera, in realtà è arrivato il momento di imparare a conoscere quel che si cela sotto la tua.

La verità è che nessuno ti giudica, la notte, perché nessuno può vederti. La verità è che al buio si diventa tutti uguali.

La notte porta consiglio. Luca, con tutte quelle che ha passato in bianco, senza riuscire a prendere sonno, nell’attesa di un domani ancora peggiore dell’oggi, ancora più inutile, dovrebbe ormai essere diventato un campione di saggezza. La notte gli scorre davanti, silenziosa, immobile, sempre uguale e sempre diversa. Lo culla, lo circonda dolcemente con le sue braccia impalpabili, lo fa sentire al posto giusto. Ancora per un po’, fino alle prime luci dell’alba. Perché dopo ogni notte arriva un nuovo giorno, sempre.

Luca aspetta, impassibile; sul suo volto non c’è traccia di alcuna emozione, e non solo perché, in ogni caso, nessuno potrebbe coglierla. La notte è fatta per quelle persone che proprio non ce la fanno a vivere di giorno, che sanno di non poterla sprecare dormendo, perché probabilmente è solo in quei momenti che esistono davvero.

Dal soffitto della sua stanza, una piccola stella emana un fioco bagliore.

Luca ricorda ancora il giorno in cui suo padre, appena tornato da uno dei soliti viaggi di lavoro, tanti anni prima, nel salutarlo aveva sfoderato un sorriso trionfante e sfilato dalla sua valigetta una busta, piena di stelline di un materiale plastico bianco-verdastro.

–          Che cosa sono? – aveva chiesto Luca, affascinato.

Suo padre gli portava spesso regali costosi e piuttosto inutili; quello, in tanti anni, era il primo ad avere l’aria modesta, ma anche interessante.

–          Avanti, prova a immaginare! – era stata la risposta – Possibile che debba spiegarti sempre tutto?

Luca si era sentito arrossire: dall’espressione che aveva assunto suo padre, la solita tremenda, demoralizzante aria di sufficienza, la spiegazione doveva essere ovvia. Forse lui, dopotutto, non era così intelligente, come diceva sempre sua mamma. Forse aveva ragione il papà, a dire che non capiva mai nulla. Suo padre invece sì, che era brillante. Luca aveva scosso la testa.

Il padre gli aveva spiegato tutto, come al solito: quelle piccole placche di plastica, all’apparenza tanto insignificanti, al buio diventavano brillanti e scintillanti. Avrebbero potuto attaccarle sul soffitto della sua stanza, aveva detto. Poi, aveva perfino spento la luce ed estratto una manciata di stelline dalla busta; l’aveva mostrate a suo figlio che, sempre più esterrefatto, ma anche al settimo cielo, aveva afferrato uno di quei piccoli oggetti scintillanti, per osservarlo più da vicino.

In quel momento avevano suonato alla porta.

–          Cavolo – attraverso il buio, la voce di suo padre era giunta alle orecchie del ragazzino ovattata, attenuata, priva della solita inflessione aspra e severa –  mi ero completamente dimenticato che mio fratello sarebbe venuto per cena. Dovevo portare qualcosa per i bambini!

C’era stato un interminabile attimo di silenzio in cui Luca aveva capito tutto: svelto, aveva fatto scivolare la piccola stella che teneva in mano dentro la tasca dei jeans; il luccichio si era spento all’improvviso.

–          Sbrigati, Luca, aiutami a raccogliere tutte queste stelline – aveva esclamato suo padre, accendendo di nuovo la luce – le devo dare ai tuoi cugini, ma prometto che domani ti porterò un altro regalo.

Luca aveva obbedito all’istante, con il cuore in gola. Lui obbediva sempre all’istante: i capricci erano cose riservate ai figli di padri infinitamente meno intelligenti, meno impegnati e più pazienti del suo. Per tutta la cena aveva guardato i suoi cuginetti giocare con il regalo dello zio, accendere e spegnere continuamente la luce per controllare se le stelle brillassero ancora. Quando, infine, se n’erano andati, era sgattaiolato in silenzio nella sua stanza e si era arrampicato su una sedia, stringendo nel pugno la piccola stella; suo padre lo aveva trovato così, con le braccia tese sopra la testa, nel tentativo di toccare il soffitto. Poi aveva visto la stellina e si era arrabbiato da morire: si capiva subito quand’era davvero infuriato, a causa dello scintillio nello sguardo. Non aveva gridato, perché lui non gridava mai, però si era accigliato e aveva irrigidito la mascella. Poteva significare una cosa sola: qualunque parola avesse detto, avrebbe fatto male. Luca aveva chiuso gli occhi; se avesse potuto, si sarebbe anche tappato le orecchie, ma probabilmente avrebbe sentito lo stesso.

–          Ti avevo promesso un altro regalo, domani – pausa – ma tu hai voluto essere ingordo ed egoista – pausa – non sono questi i principi con cui ti ho allevato – lunghissima pausa – sono molto deluso, Luca.

Click. La porta si era richiusa. Luca era solo nella stanza, con gli occhi puntati a terra e quella piccola stella sul palmo della mano. L’aveva guardata un’ultima volta, prima di scagliarla il più lontano possibile e correre a rintanarsi sotto le coperte. Era stata una notte orribile, gli incubi lo avevano svegliato spesso; eppure, ogni volta che apriva gli occhi, vedeva quel piccolo pezzo di plastica brillare in un angolo, sul pavimento, e tutto tornava improvvisamente a posto.

Il giorno dopo, al ritorno da scuola, aveva trovato la stellina attaccata proprio al centro del soffitto della sua stanza; suo padre era via per lavoro, ma la mamma ostentava una certa aria soddisfatta e ad un certo punto, durate il pranzo, gli aveva perfino fatto l’occhiolino. Luca non aveva detto nulla.

Da quel giorno, ogni notte passata a dormire gli sarebbe parsa sprecata, persa, mentre quella piccola stella continuava a brillare solo per lui. Quella notte sarebbe stata la prima di tante passate in bianco, la prima di tante in cui non avrebbe più messo in dubbio che il mondo esterno, quello chiassoso e rumoroso, quello pieno di luce e colore, in realtà non gli si addicesse affatto.

–          Probabilmente durerà solo un paio di mesi, prima di spegnersi – aveva commentato suo padre quando, dopo qualche giorno, aveva notato la stella sul soffitto.

Sono passati quasi cinque anni, eppure quel piccolo, insignificante pezzetto di plastica continua a gettare sulla stanza il suo fioco bagliore. Luca, come al solito sveglio, come al solito piccolo, inutile, sa che è lì per lui, come lui è lì per lei: sono soli nel buio, soltanto loro.

La notte è davvero imprevedibile.

La sua scuola gli è sempre sembrata troppo grande. O magari, è lui ad essere troppo piccolo.

Comunque sia, si sente terribilmente a disagio quando, dopo aver evitato il bacio della mamma ed essere saltato giù dalla macchina, si ritrova nel bel mezzo dell’enorme, affollato, caotico cortile.

Bambini che piangono, attaccati alle madri, sperando ancora che quelle lacrime possano esonerarli dall’incubo quotidiano della scuola. Sono i più piccoli, quelli del primo anno: inesperti, torturati dai più grandi, umiliati durante i giochi in giardino, derubati ogni giorno della merenda, spintonati per i corridoi ma, nonostante tutto, ancora ottimisti. Luca li disprezza per quel loro supplicare ma forse, in fondo, li invidia anche un po’: loro, almeno, sembrano capaci di chiedere aiuto.

Eppure, in fondo, a cosa può servire? Le mamme li spingeranno comunque, delusi e piangenti, verso il portone, giorno dopo giorno dopo giorno. Continueranno a fare a meno della merenda, ad essere sorpassati da tutti alla mensa, a cadere in ginocchio, inciampando in quello stupido grembiule, sotto le spinte dei più forti. E impareranno, presto o tardi, che avrebbero fatto meglio a risparmiare tutte quelle lacrime, perché tanto sono andate sprecate.

Da evitare, invece, sono i ragazzi più grandi, quelli delle medie: si aggirano per il cortile con aria baldanzosa, zaino su una sola spalla, alcuni con già in mano le chiavi del motorino. Sono un mondo a parte. Tra meno di un anno, anche Luca verrà introdotto in quella sorta di universo parallelo, ma sa già che lì non troverà il suo posto, proprio come non lo ha mai trovato qui. Andrà avanti e basta, perché è quello che deve fare; è l’unica cosa che il mondo, ovvero suo padre, si aspetti da lui: che cresca con un’istruzione. Elementari, medie, un qualche liceo, probabilmente una qualche università. Anno dopo anno. E poi? Poi sarà pronto. Ma pronto per cosa? Per il mondo.

Luca non crede che sarà mai pronto per il mondo. Non crede neanche che andare al liceo, poi all’università, gli insegnerà un po’ meglio come vivere; forse si limiterà ad arrancare, ad andare avanti come svolgendo un gravoso dovere, faticando, per tutta la vita. Sopravvivendo. Rimarrà sempre lo zimbello di tutti.

Questi pensieri sembrano prendere forma in una nebbia nera e malvagia che lo invade dall’interno, gli entra nei polmoni, lo soffoca. Il respiro diventa più affannoso, sente un peso al petto, la testa gli gira, la mano annaspa nelle tasche in una frenetica ricerca; barcolla, quasi cade. Una ragazza più grande lo rimette gentilmente in piedi, si china verso di lui, gli chiede se vada tutto bene.

Domanda intelligente. È evidente che niente sta andando per il verso giusto. Le parole della ragazza gli giungono alle orecchie come ovattate, i suoi polmoni assorbono sempre meno aria, la vista gli si appanna. Poi, la mano si chiude su un piccolo cilindro di plastica, nella tasca interna della giacca. Ecco dov’era! Tira fuori l’inalatore a fa un bel respiro, profondo. Poi un altro, un altro, un altro ancora.

Il mondo torna lucido in tutta la sua bruttezza; Luca riesce a sentire perfettamente il “va meglio?” della ragazza, l’affanno è già scomparso. Annuisce. Tutto passato. La ragazza si dilegua.

Intorno a lui ci sono le solite risate, le sente proprio bene: quell’inalatore fa miracoli. Nonostante si sforzi di non ascoltare, di convincersi di avere ancora le orecchie otturate, un ultimo “non dimenticarti di respirare, quattrocchi!” lo raggiunge su per le scale, mentre si avvia il più velocemente possibile verso la sua classe: l’ennesima prigione.

Odia quegli stupidi scalini con la striscia nera antiscivolo appiccicata al centro; odia la forma di quella scuola, ne odia il colore giallastro dei muri e l’odore del forte disinfettante usato dalle bidelle per pulire il pavimento. Odia le quattro pareti della sua classe, sporche e coperte di scritte, che sembrano pronte a chiudersi sopra di lui e ad imprigionarlo, da un momento all’altro, per sempre. Odia la lavagna mai del tutto pulita, le finestre difettose, i banchi scrostati e il sorrisetto sardonico che ognuno sembra incollarsi sulla faccia al vederlo arrivare. Odia attirare l’attenzione ma, per il colmo delle sfortune, sembra essere venuto al mondo apposta per suscitare ilarità in chiunque gli stia attorno. Eppure ci prova davvero: si appiattisce contro lo schienale della sedia, china la testa sul libro, lucida e rilucida le lenti dei suoi occhiali fino a farle brillare, finge continuamente di non esistere; se potesse, si mimetizzerebbe con il muro alle sue spalle o si nasconderebbe furtivamente tra i cappotti, appesi lungo la parete in fondo. Ne è sempre stato convinto: alcune persone sono tagliate per stare al mondo, altre non ce la faranno mai; nonostante tutti i loro sforzi rimarranno sole, sempre, anche in mezzo ad una folla. Con un fascio di luce puntato contro ed un pubblico pronto a ridere.

Trova buffo che tanti sprechino energie e tempo prezioso a tentare di farsi notare, quando lui ci riesce così bene anche desiderando disperatamente il contrario. Forse, pensa, in fondo è proprio quando cerchi di non farti vedere, di passare a tutti i costi inosservato, che per gli altri diventi particolarmente interessante. I suoi compagni trovano sempre qualcosa di irresistibilmente comico in lui: i pantaloni troppo corti, una chiazza di inchiostro sulla maglietta, le ginocchia ossute, il suo modo di correre durante l’ora di ginnastica, l’aria imbambolata, l’inalatore, la montatura sbilenca degli occhiali.

A lui non importa di loro: non li trova minimamente interessanti. Non gli frega che lo chiamino quattrocchi, che gli facciano lo sgambetto, che durante i giochi nel piccolo e polveroso giardino lo spediscano sempre faccia a terra, a mangiare fango; non lo interessano le loro battutine, più taglienti del filo di un rasoio. Nonostante debba stare in mezzo a loro tutti i giorni, si sente più distante ad ogni momento. Li osserva distratto, li ascolta diventare gentili nel chiedergli di dare un’occhiata al suo quaderno degli esercizi, ritornare odiosi e sarcastici un attimo dopo aver finito di copiarli. Non reagisce, non si lamenta, non parla, non nega il suo aiuto a nessuno. Li ascolta chiamarlo fesso, pensa che comunque sia meglio che diventare falso quanto loro. È consapevole di sembrare un alieno e lo preferisce al doversi adeguare per forza. A guardarli bene scopre che in fondo, sotto al grembiule, sono tutti uguali anche dentro. Gli fanno pena. Non si capacita del fatto che a dieci anni si possa essere così stupidamente crudeli.

Sa che spesso il gruppo può essere capace di combinare dei bei guai. Impossibile non saperlo, quando hai una mamma psicologa che te lo ripete ogni giorno. Comunque, stare tra loro non lo preoccupa: è sempre stato abbastanza portato per l’arte della sopravvivenza; un talento propizio, dal momento che il vivere gli crea invece qualche piccolo problema.

Non teme il presente: lo vive quasi correndo, con lo sguardo puntato a terra per evitare di incontrarne altri; è ansioso di superare ogni momento, di arrivare a quello successivo, pur sapendo che non vi si troverà meglio che nel precedente. L’unica cosa che davvero riesca a fargli mancare il respiro, a soffocarlo tra le sue grinfie ossessive e spaventose, a farlo fermare di botto senza più forza né voglia di andare avanti, è il pensiero del futuro. Quella piccola parola, quelle tre semplici sillabe che, per un qualsiasi ragazzino, dovrebbero essere piene di aspettative, a lui fanno venire in mente solo un immenso buco nero e spaventoso nel quale, prima o poi, dovrà cadere. Di certo non si getterà di sua spontanea volontà, ma questa non è una garanzia: quando hai troppa paura per decidere, la vita lo fa per te. E la decisione che prende non è sempre la migliore, anche se in quel momento sei troppo confuso per accorgertene. Continui ad andare avanti finché, un giorno, non ti rendi conto di seguire una strada diversa da quella che avresti voluto, semplicemente perché al momento di scegliere non sapevi di volerla. Il futuro è qualcosa di incerto e spaventoso; ogni battito di ciglia, ogni passo svogliato nel cortile della scuola, ogni volta in cui, forse un po’ troppo affrettatamente, dici “ho deciso”, ogni respiro può cambiarti la vita, magari senza che tu te ne accorga. Ogni sentiero può essere un bivio al quale, dopo aver scelto, non si può più tornare. Non molti, nella fatica di diventare grandi, pensano a questo, eppure Luca, a dieci anni, ne è già spaventato a tal punto da non riuscire a respirare. E quando l’aria del mondo non basta più, si rifugia nel suo inalatore e dimentica tutto il resto; chiude gli occhi e va avanti, sceglie il percorso a caso, sforzandosi di non pensare a quell’enorme buco nero, di non lasciarsi andare alla consapevolezza di esserci, in fondo, già un po’ sprofondato.

È da poco iniziata la seconda ora quando la maestra Viviana annuncia di avere una sorpresa per loro. Luca non sorride, non si agita sulla sedia, non alza neppure la testa dal banco: sarà di certo il solito stupido film tv, che i suoi compagni accolgono sempre con tanto entusiasmo. Ma quando la maestra prosegue: – Ragazzi, vi presento la vostra nuova compagna, Nohaila – perfino Luca solleva per un attimo lo sguardo.

Sulla soglia della stanza c’è una bambina minuscola, con grandi occhi dalla forma affusolata e capelli neri corvini raccolti in due lunghe trecce; il grembiule, più grande del necessario di almeno tre taglie, le ricade addosso pesantemente, neanche indossasse un sacchetto informe.

Nella classe si alza subito un acceso mormorio.

–          L’hai mai vista da qualche parte?

–          Mai.

–          Com’è piccola! Secondo voi ha la nostra età?

–          Beh, esistono anche persone basse! Tu poi, dovresti saperlo bene…

–          Cretino! Io sono almeno dieci centimetri più alta di quella!

–          Seee…

–          Chissà da dove viene…

–          Beh, è nera, quindi dall’Africa!

–          Si dice “di colore”, ignorante… e poi non è così scura! Sembra più…

–          Beige?

–          Stupida, non è mica un vestito!

–          Beh, allora sentiamo, che colore è?

–          Siete proprio dei cretini… non sapete che si dice mulatta?

–          Mu… che?

–          Silenzio! – la maestra pone seccamente fine al chiacchiericcio – Vi sembra questo il modo di accogliere una nuova arrivata?

Poi, con tono decisamente più gentile, si rivolge alla microscopica bambina, invitandola all’interno della classe con un ampio gesto del braccio: – Vieni pure, Nohaila – pronuncia il suo nome attentamente, come se avesse paura di storpiarlo; infatti, subito dopo le chiede: – Si dice così?

La bambina sorride gentilmente, poi la corregge: – Nohaila – ripete. La maestra Viviana non sembra notare sostanziali differenze, eppure ce ne sono tante: detto così, a Luca quel nome sembra quasi una melodia.

–          È arabo, giusto? – prosegue l’insegnante.

–          Sì, signora, sono di origini afghane, però sono nata in Italia.

Poi sorride di nuovo, mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi: un sorriso dolce ed innocente che però, in qualche modo, a Luca sembra anche vigile, quasi calcolatore. Si chiede se sia stato l’unico a notarlo: non sarebbe la prima volta. Lui, quello strano, sembra vedere spesso cose che agli altri sfuggono, pur passando molto meno tempo di loro ad osservare il mondo attorno.

Anche la maestra sorride: – Il mio nome è Viviana – dice – lo pronuncerai sicuramente meglio di quanto faccia io con il tuo. In ogni caso, non c’è assolutamente bisogno che mi chiami signora: maestra andrà più che bene.

–          D’accordo, maestra Viviana – ed anche il nome dell’insegnate viene convertito, per magia, in pura musica.

Testa alta, spalle dritte ed un bel sorriso: Nohaila, un metro e trenta scarso, si porta incollata addosso come un’etichetta l’inconfondibile atmosfera che avvolge quelli nati per vincere. È in quel momento che Luca capisce che nessuno si azzarderà a ridere di lei: non la prenderanno in giro per il suo grembiule enorme, per la pelle olivastra, per lo zainetto di cuoio con le cuciture mezze saltate.

Non le chiederanno il quaderno per copiare gli esercizi, non la sorpasseranno spintonandola nell’ora di ginnastica, non le faranno le linguacce dopo averle portato via da sotto il naso la porzione di gelato del giovedì. Non lo faranno perché c’è qualcosa nei suoi occhi, nel suo sorriso tranquillo, nel modo di camminare, che sembra intimare a tutti di prenderla terribilmente sul serio.

Luca abbassa di nuovo lo sguardo sul banco, forse perché si è stancato di guardare, probabilmente anche perché un po’ teme il momento in cui quegli occhi neri e profondi incontreranno i suoi. Impiega qualche secondo a comprendere che il posto che la maestra sta indicando alla nuova arrivata è proprio quello accanto al suo. Un posto vuoto da più di quattro anni.

Nohaila lascia cadere ai suoi piedi lo zainetto disastrato e, prima di sedersi, sistema per bene l’enorme grembiule sotto al sedere. Niente risatine: dunque non si era sbagliato, Luca.

La lezione riprende da dove l’avevano lasciata, anche se la maestra si interrompe di tanto in tanto per assicurarsi che Nohaila la segua. Per tutta l’ora, la ragazzina continua a comportarsi come se al posto di Luca ci fosse un banco vuoto; lui, supportato dalla forza dell’abitudine, fa lo stesso.

Eppure, Nohaila è lì, vicino a lui: sorride, alza la mano e la sventola in aria, si agita sulla sedia, interviene nella lezione ad ogni occasione, prende appunti su un vecchio blocchetto con una penna nera non cancellabile. In ogni caso, lo ignora.

Al suono della ricreazione, Luca pesca in fretta e furia la pizza dalla cartella e fa per alzarsi dal banco. L’attimo successivo, un “ehi” proveniente dalla sua sinistra lo spinge a voltarsi verso la stravagante ragazzina.

I grandi occhi scuri di Nohaila sono puntati dritti nei suoi. Non per molto, però: una frazione di secondo dopo, quelli di Luca stanno già esplorando le incisioni sul suo banco, effettuate da generazioni e generazioni di giovani scolari armati di compasso.

–          Sai Luca, preferisco che le persone mi guardino quando mi presento – lo raggiunge di nuovo quella voce melodiosa.

Lo stupore lo costringe a rialzare lo sguardo; prima che possa dire qualunque cosa, però, Nohaila puntualizza: – Non sono una veggente: il tuo nome è scritto sulla foderina del libro.

Suo malgrado, Luca sorride. C’è qualcosa in lei che sembra rendere quella giornata meno terribile del solito. In fondo, non solo si è seduta accanto a lui (d’accordo, glielo ha detto la maestra), ma gli sta perfino rivolgendo la parola (e questo non glielo ha ordinato proprio nessuno).

In quel momento arrivano Chiara e Martina.

–          Ciao, Nohaila – esordisce Chiara, ravvivandosi ovviamente i ricci e ovviamente gettando a Luca il solito sguardo riservato solo a cose molto sgradevoli – Mi volevo presentare.

–          Ci volevamo presentare – la corregge Martina, facendosi spazio.

Nohaila sorride il suo strano sorriso, stringendo la mano ad entrambe, poi si volta per rivolgersi nuovamente a Luca: – Dunque, dicevamo…

Chiara, indispettita, si schiarisce la voce; Nohaila si volta di nuovo ed appare sinceramente colpita dal fatto che quelle due siano ancora lì, davanti al suo banco.

–          Sì? – chiede.

Martina e Chiara si fissano per un attimo: probabilmente non è mai capitato che l’attenzione di qualcuno si sia distratta da loro per focalizzarsi su quello strano, amorfo individuo che è Luca, a meno che lui non si sia rovesciato addosso il succo di frutta o che qualcuno non lo abbia eletto a bersaglio per uno stupido scherzo. Eppure, Luca è lì, seduto sulla sua sedia, mangiucchia la sua pizza e non appare particolarmente ridicolo, almeno non più del solito.

–          Ci chiedevamo anche se volessi sederti accanto a noi – prosegue Martina, leggermente seccata.

–          Grazie, ma un posto ce l’ho già – gli occhi di Nohaila cominciano a brillare di un bagliore quasi accecante; hanno decisamente un qualcosa di sinistro, quasi minaccioso.

Luca è convinto che chiunque si accorgerebbe del pericolo imminente, ma forse è di nuovo la sua immaginazione, perché Martina continua: – Dai, insomma… non penserai di restartene vicino a quello! – sgrana gli occhioni verdognoli e spinge avanti il mento – Vuoi scherzare? È completamente fuori!

Non si preoccupa nemmeno di abbassare la voce, come se Luca non fosse lì ad un passo. Lui si limita a inarcare un sopracciglio e ad accanirsi sulla pizza: le chiacchiere velenose hanno il solo potere di annoiarlo. Quando Nohaila parla di nuovo, la sua voce non è più melodiosa: sembra quasi che qualcuno faccia stridere un qualsiasi rozzo pezzo di ferro contro le corde di un violino scordato, tanta è l’aria di disprezzo che scaturisce dalle sue parole: – Quando comincerò a pensare di aver bisogno di aiuto per scegliere le persone a cui avvicinarmi, ve lo farò sicuramente sapere. Fino a quel momento, preferirei che non foste così maleducate, almeno quando parlate con me.

Dalle espressioni che assumono, sembra che Chiara e Martina siano appena state costrette ad ingoiare un limone ciascuna.

–          Beh, noi volevamo solo darti un consiglio, ma se preferisci… – sibila Chiara.

Nohaila la interrompe; la sua voce stavolta assume un tono dolce, quasi sussurrato, eppure forse ancor più pericoloso: – Anche il mio è un amichevole consiglio: finché avrete intenzione di offendere Luca, o qualcun altro che non vi abbia fatto niente, state alla larga da me.

Adesso i suoi occhi mandano davvero lampi, è impossibile che quelle due non se ne accorgano. Sono entrambe molto più alte di Nohaila, eppure a Luca basta uno sguardo per scorgere la soggezione sui loro volti; si dileguano senza aggiungere altro. Luca torna alla sua pizza.

–          Sei un idiota – la voce della sua nuova compagna di banco lo raggiunge tra capo e collo, fredda e sferzante, un fulmine a ciel sereno.

Solleva lo sguardo solo per assicurarsi che stia davvero parlando con lui. Nohaila alza gli occhi al cielo: – Sì, sì, ce l’ho proprio con te. Che cos’hai che non va? – sembra arrabbiata sul serio.

Dunque se n’è accorta anche lei. Il mondo ripiomba addosso a Luca, che si affretta a controllare se sia ancora capace di respirare da solo. Ce la fa. Torna a fissare il banco.

–          Guardami negli occhi, ragazzino – sentirsi interpellare così da una pulce come lei dovrebbe sembrare comico, eppure a Luca non viene affatto da ridere. Alza di nuovo lo sguardo.

–          Cosa c’è? – ribatte debolmente.

–          Secondo te cosa c’è? – gli fa il verso Nohaila – Ti sembra normale che io debba difenderti dagli insulti di due emerite cretine?

Luca alza le spalle, questa volta il suo sguardo va ad incollarsi al pavimento.

–          Guardami negli occhi! – sbotta di nuovo lei.

È in quel momento che dentro Luca esplode qualcosa di nuovo. Forse è rabbia nei confronti di quella ragazzina, appena arrivata e già convinta di dettare legge. Forse è invidia perché, con un paio di parole ben assestate, lei ha già fatto rabbrividire Chiara e Martina mentre lui, per quattro anni, non è riuscito ad altro che a farle ridere. Forse è semplicemente voglia di farla tacere, di scacciare la sua voce acuta dalla testa, in modo da poter tornare alla sua pizza in santa pace.

Fatto sta che Luca raddrizza le spalle, fissa gli occhi in quelli di Nohaila e, forse per la prima volta nella sua vita, sente che, se potesse guardarsi ad uno specchio, vedrebbe le sue pupille scintillare come quelle della bambina che ha di fronte, e forse anche di più.

–          Tu hai passato qui dentro mezz’ora e pensi già di capire tutto – sbotta – beh, lasciati dire che non è così semplice. Non ti insulteranno mai, comunque, ma se lo faranno saprai come difenderti. E quando insulteranno me, lasciami decidere da solo se valga la pena di prenderli a parolacce, questi poveretti, che hanno come massima aspirazione quella di sminuire gli altri e sono pure convinti di essere forti.

Una frazione di secondo dopo aver richiuso la bocca, Luca si ritrova a chiedersi se sia stato proprio lui a parlare. Ma dev’essere così, perché Nohaila lo sta osservando molto più attentamente di prima e sul suo volto si sta disegnando… un sorriso. Eh già, sta sorridendo. Dev’essere proprio svitata e questa consapevolezza fa sentire Luca un po’ più a suo agio, nonostante sia ancora arrabbiato.

–          Va già molto meglio, ragazzino – ridacchia Nohaila, con espressione quasi fiera, come se l’esplosione di Luca fosse un gran successo raggiunto per merito suo.

–          E smettila di chiamarmi ragazzino – aggiunge lui, accigliato.

–          D’accordo – sorride ancora Nohaila, con quel suo strano sorriso – te lo prometto, ma tu devi promettermi qualcosa in cambio.

–          Che cosa? – chiede Luca, scettico.

–          Parla sempre a tutti come hai parlato con me adesso – poi Nohaila sembra pensarci un attimo – d’accordo, magari senza urlare, ma quello che voglio dire è: guardali negli occhi. Rispetta tutti, non avere paura di nessuno. Non fissare il pavimento, perché allora penseranno che non vali niente, che fai schifo, e si comporteranno di conseguenza. Alza lo sguardo, Luca. Me lo prometti?

–          Te lo prometto, Nohaila.

E nemmeno lui sa perché stia facendo quella promessa; perché, in un momento di stupida insensatezza, all’improvviso, stia affermando qualcosa che sa che non riuscirà mai a mantenere. Eppure guardarla negli occhi e parlarle così, faccia a faccia, è così bello che gli fa credere possibile di poterci riuscire anche con chiunque altro.

Mentre asciuga le pentole con lo strofinaccio sua mamma ostenta un’aria perplessa, eppure insolitamente euforica: – Come hai detto che si chiama questa nuova compagna?

–          Nohaila – ripete Luca, tentando invano di riprodurre la melodia che solo la legittima proprietaria del nome sembra essere capace di generare – è arrivata nella nostra classe due settimane fa.

–          Mmm – la mamma annuisce.

Fa spesso quel “mmm” per aiutarsi a pensare; Luca aspetta impazientemente che la sua riflessione finisca. Quando, dopo un paio di minuti, la mamma chiede ancora: – Dove abita questa Nohaila? – Luca sa di averla spuntata. Ripete l’indirizzo forse per la quinta volta e poi fa un bel sorriso: – Grazie, mamma – dice, alzando lo sguardo per cercare il suo. Ma sua madre è sempre troppo impegnata: parla e intanto rammenda, pulisce, spolvera, stira, stende il bucato. I suoi occhi sono sempre puntati sulle mani affaccendate.

–          Prego, prego – bofonchia, sbrigativa – basta che tu mi prometta che farete i compiti e non starete soltanto a giocherellare.

–          Promesso.

E così, dopo aver ultimato qualche faccenda, sua mamma prende la macchina e lo accompagna davvero a casa di Nohaila. Parcheggiano in una stradina secondaria, poi proseguono a piedi, facendo entrambi finta che non stia accadendo niente di straordinario, che non sia la prima volta che Luca va a studiare a casa di un compagno di scuola, che non sia la prima volta che abbia anche solo parlato a sua madre di qualcosa relativa alla scuola.

Evitando di saltellare per la tensione, Luca fa la strada quasi correndo, leggendo e ripetendo sottovoce i numeri civici; sua madre lo guarda di sottecchi e si sforza di non sorridere.

Infine, si fermano di fronte al numero 32: un portone scrostato, carico del peso di lunghi anni. Luca si alza sulle punte per suonare il campanello e la voce squillante di Nohaila risponde quasi subito:

–          Sei tu, Luca?

–          Sono io.

La mamma sorride ancora. Il portone viene spalancato su un cortile piccolo e fosco; alcune delle mattonelle del pavimento sono divelte e mettono a nudo la terra battuta sottostante, eppure non c’è traccia di erbacce; nell’unico angolo che riesca a racimolare un po’ di luce, filtrata dai rami nodosi di una vite selvatica, qualcuno ha realizzato una piccola aiuola, piena di grandi fiori esotici dai colori sgargianti.

–          Luca! – la voce squillante di Nohaila lo raggiunge da una bassa porta a vetri incastonata nel muro adiacente.

Subito dopo, la testa della ragazzina fa capolino, seguita dal resto del corpo. Oggi Nohaila ha i capelli racchiusi in tante minuscole treccioline, che sobbalzano ad ogni suo movimento.

–          Vieni, dai – lo incita dalla soglia.

Luca e la mamma entrano in un salottino piccolo, dall’aria piuttosto consunta; dal basso di un solido tavolinetto a tre gambe, un’abat-jour diffonde un fioco bagliore e basta, da sola, ad illuminare sufficientemente l’intera stanza.

–          Piacere, signora – si presenta Nohaila, tendendo la mano alla madre di Luca.

Lei la stringe, ricambiando gentilmente il sorriso ma guardandosi contemporaneamente attorno. Luca immagina perfettamente cosa stia cercando. Infatti, poco dopo sua mamma chiede: – Senti, Nohaila… i tuoi genitori non ci sono?

–          No, signora.

La ragazzina non sembra voler aggiungere altro, quindi la madre di Luca prova con la domanda successiva: – Torneranno presto?

–          Veramente no – è la risposta – qui viviamo solo io e mia madre, ma lei il pomeriggio non c’è mai, lavora – poi Nohaila ammicca verso Luca – non si preoccupi, però: faremo tutti i compiti e staremo tranquilli.

A Luca sembra proprio che la sua amica parli con un tono da adulta responsabile, ma allora perché la mamma fa una faccia tanto dubbiosa? Non può fare la faccia dubbiosa, non la prima volta che lui sembra aver finalmente trovato qualcuno che non lo consideri solo un oggetto di divertimento. Non la prima volta che è stato invitato a studiare a casa di un’amica, un’amica vera.

Lo sa Luca, e lo sa anche la mamma. Che infatti, dopo aver riflettuto un attimo, annuisce:

–          D’accordo ragazzi, ma mi raccomando: fate tutti i compiti e comportatevi bene. Luca, passo a prenderti alle sei.

–          Ok.

La mamma fa per avvicinarsi e dargli un bacio, ma lo sguardo di Luca la fa in qualche modo ricredere e così si limita ad ammiccare all’indirizzo di una sorridente Nohaila: – È stato bello conoscerti – le dice – per favore, bada tu a questo scapestrato al posto mio.

–          Sarà fatto, signora – ridacchia Nohaila.

Se gli sguardi potessero uccidere, quello che Luca indirizza alla mamma sarebbe senz’altro letale.

–          Ah, devi farmi anche un’altra promessa, Nohaila – continua sua madre.

Ma perché non se ne va?

–          Promettimi che mi darai del tu e che mi chiamerai Manuela.

–          Come con la maestra – sorride la bambina, rivolgendosi a Luca. Poi annuisce: – D’accordo.

E finalmente, la mamma è fuori, in cortile. Luca tira un sospirone, ma i suoi polmoni assorbono meno aria di quanta si sarebbe aspettato. Con discrezione, fa scivolare la mano in tasca.

Intanto, la porta si è richiusa e Nohaila si è già voltata a guardarlo, con quel suo solito sorrisetto.

–          Beh – sorride – siamo soli.

–          Già – ribatte Luca, in un esile soffio, spostando lo sguardo sulle sue scarpe da ginnastica. La mano si sposta nell’altra tasca.

–          Ah-ah – fa Nohaila, con tono di rimprovero – cosa mi avevi promesso?

Un po’ riluttante, Luca torna ad alzare lo sguardo. Sempre meno aria entra attraverso le sue narici. La ricerca nelle tasche non sta dando frutti.

–          Non mi sento molto bene – confessa, rinunciando all’ultimo sbuffo di fiato.

–           Perché, che succede? – chiede Nohaila.

Non riesce proprio a trovare l’inalatore. Il cuore accelera, l’affanno aumenta, deve aprire la bocca per mandar dentro un po’ d’aria. Troppo poca. Scuote il giacchetto sperando di sentire un peso, un suono, qualcosa che gli sveli la presenza del suo inalatore.

–          Luca? Non scherzare, dai, mi fai paura!

Non ci sono altre tasche, eppure dev’essere lì, deve! Controlla di nuovo. Stavolta sente le mani di Nohaila frugare freneticamente nel giaccone, insieme alle sue. E poi, all’improvviso, ricorda: l’ha lasciato nell’altra giacca!

Serra gli occhi e si immagina che non stia accadendo davvero; non deve succedere, non ora, non lì, a casa di Nohaila.

Nemmeno la bocca basta più: l’aria non arriva. Sussulta, tossisce e ingoia ancora un po’ di niente.

–          Luca! – Nohaila lo sta chiamando – Luca! Apri gli occhi, dai!

Il mondo si allontana rapidamente: lo sente dal silenzio denso di nulla che comincia a riempirgli le orecchie. Ma allora, perché la voce di Nohaila è ancora lì? È una musica che si espande, va dappertutto e comincia pian piano a circoscrivere quel vuoto.

–          Apri gli occhi!

Luca li apre, fa quasi fatica. Il mondo ondeggia. Niente è definito, niente è certo, tranne due grandi iridi scure fisse su di lui.

–          Guardami.

Tutto balla, eppure quelle due pupille sono sempre lì, immobili, esigenti. Le palpebre cominciano a tremargli, deve distogliere lo sguardo; non può guardarla, non mentre si sente così. Non vuole leggere l’orrore in quegli occhi e sicuramente non vuole che sia per causa sua.

–          Guardami, Luca!

Il cuore sembra voler esplodere, le orecchie otturate amplificano il suo battito, la gola è sigillata.

–          GUARDAMI! – un colpo di gong, secco, deciso, forte. Musica.

E una frazione di secondo dopo il suo sguardo è catturato, incollato ai due occhi scuri di fronte ai suoi.

–          Dai Luca, respira.

Una stanza che ondeggia, senza controllo, senza regole; un cuore che pompa sangue con energia disperata; un ronzio confuso che gli riempie la testa; due iridi nere che lo fissano.

Luca apre la bocca e inghiotte aria, aria vera, non più il nulla e basta. Tossisce, adesso entra aria anche dal naso.

–          Respira.

Sta respirando.

All’improvviso, ogni cosa ha di nuovo il suo contorno; gli oggetti hanno smesso di ballare, un fischio acuto ha liberato le sue orecchie da tutto quel silenzio sbagliato, irreale; il suo cuore si è tranquillizzato: sa che adesso le cose stanno andando meglio. Lo sa anche Luca, mentre i suoi occhi non si muovono più da quelli di Nohaila: sono loro che gli hanno riavvicinato il mondo, sono loro che ce lo tengono inchiodato e dicono che non lo lasceranno più andare.

–          Continua a respirare!

Per tutta la vita, Luca non ha desiderato altro che staccarsi da quell’orrenda realtà, fingere di non farne parte; ha profondamente detestato qualunque cosa l’abbia costretto a restare se stesso, un se stesso così insignificante. Allora perché adesso non riesce ad odiare quegli occhi? Perché non può semplicemente voltarsi, staccare lo sguardo, interrompere il contatto, fissare per terra ed andare avanti solo se costretto? Perché sente che, anche quando sarà lontano, lo sguardo di Nohaila rimarrà fisso nella sua testa, intimandogli di continuare a guardare avanti, di affrontare la vita a testa alta, di non smettere di respirare?

–          Stai bene?

Luca annuisce, tira su con il naso, si passa una mano sulla fronte; è sudato e trema anche un po’, però respira. L’aria entra ed esce dai suoi polmoni, senza bisogno di alcun inalatore. Automaticamente, proprio come dovrebbe essere.

–          Mi hai messo paura – dice ancora Nohaila, quasi in tono di accusa – non farlo mai più.

–          D’accordo – ribatte debolmente Luca.

Chissà perché, è davvero convinto di poter decidere; sicuro che, per una volta, dipenda tutto da lui. Ognuno costruisce il proprio mondo, ognuno traccia la sua strada semplicemente percorrendola. Nessuno ha scelto per lui, oggi.

Sorride.

–          Ma che ti ridi?! Guarda che mi hai spaventato sul serio – Nohaila si imbroncia.

–          Scusa – fa Luca. La guarda negli occhi e sorride ancora – Adesso però è passato, va tutto bene.

Vorrebbe dirle che è stato merito suo, che dal nulla è riuscita a farlo respirare. Vorrebbe dirle che in lei c’è decisamente qualcosa di speciale, che nei suoi occhi brilla una luce che lo tiene incollato a quel pavimento, come anche a quella vita.

–          Perché non mi fai vedere la tua stanza? – dice invece.

Nohaila alza le spalle, ancora poco convinta; lo guarda di sottecchi, come se potesse esplodere da un momento all’altro.

–          D’accordo – accetta infine.

La camera di Nohaila è molto piccola, proprio come il resto della casa. Un armadio un po’ sbilenco occupa metà dello spazio; il letto basso e sommerso da un’alta coltre di coperte coloratissime ed una larga scrivania incastrata sotto la minuscola finestra costituiscono il resto dell’arredamento.

–          Eccoci qua – annuncia lei – non c’è un granché da vedere, come puoi notare.

Alla parete sovrastante il letto è appesa una larga cornice. Luca si avvicina. Dietro il vetro ci sono due foto; stanno un po’ strette, il bordo dell’una sconfina sopra quello dell’altra, ma i soggetti sono chiarissimi: nella prima, una Nohaila un po’ più piccola di adesso sorride dolcemente, abbracciando un bambolotto biondo; nella seconda, due bambini in piedi su una poltrona blu si stringono l’uno all’altro; il più grande avrà al massimo sette anni ed il più piccolo non meno di cinque. Hanno lo stesso identico taglio di occhi e colore di capelli di Nohaila.

–          Chi sono questi bambini? – chiede Luca.

Nohaila gli si avvicina con aria pensosa, senza dire niente. Per una volta, è lei a tenere lo sguardo basso.

–          Allora? – insiste lui, anche se l’espressione della sua amica gli fa pensare che, forse, farebbe meglio a tacere.

–          Sono i miei fratelli: Ahmed e Farouk – Nohaila parla con tono piatto e incolore, come Luca non l’ha mai sentita parlare.

–          Non sapevo che avessi dei fratelli – tenta ancora, incerto.

–          Beh, non lo sapevi perché non te l’ho mai detto.

Non sembra arrabbiata, solo tanto, tanto stanca. Non lo sta più neanche guardando negli occhi. Chiuso in un silenzio durato anni, Luca è diventato un esperto nell’osservare le persone, le cose, le situazioni. Quello è decisamente un argomento tabù.

Chissà dove sono i fratelli di Nohaila, chissà dov’è suo padre; chissà perché vive da sola con la madre e perché abbassa gli occhi con aria quasi colpevole al solo accennare all’argomento. Vorrebbe sapere tante cose, Luca, curioso per la prima volta dopo tanto tempo.

Ma poi guarda ancora Nohaila e cambia idea:

–          Ehi, ma cosa ci fai con un armadio così grande? – chiede.

La prima cosa che gli è venuta in mente. La prima stupida, insensata idiozia, pur di farle tornare il sorriso. Si sta già maledicendo per non essere riuscito a formulare una domanda un po’ più interessante quando, miracolosamente, l’amica rialza la testa; i suoi occhi sono già tornati a scintillare.

–          Ti faccio vedere – annuncia, spalancando con un gesto secco le due grosse ante.

Dall’armadio fuoriesce all’istante un forte odore di lavanda misto a legno vecchio; Luca si sporge sopra la spalla dell’amica per sbirciare all’interno. Soltanto una minima parte dello spazio è occupata dalle grucce con i vestiti: quasi tutti i ripiani sono invece carichi di vecchie scatole da scarpe.

–          Scarpe? – chiede, sorpreso e confuso – Non avrei mai pensato che fossi il tipo fissato con le scarpe – ammette poi.

–          Infatti non lo sono, scemo! – ride lei – Spesso l’apparenza inganna…

Si alza sulle punte per raggiungere la scatola più grande, poi la porge a Luca, che la prende con aria un po’ dubbiosa.

–          Guarda che non morde – ridacchia lei – Aprila, così potrai svelare il mistero della mia fissazione!

Luca si siede sul pavimento a gambe incrociate, poggia attentamente la scatola nel mezzo e solleva il coperchio con delicatezza.

–          Andiamo, non è fragile – sbuffa Nohaila, in piedi alle sue spalle – vedi di non metterci un secolo!

–          Va bene, va bene.

Nella scatola da scarpe ci sono tanti fogli, completamente coperti da una fitta grafia cicciottella. Luca non ha dubbi: è proprio la scrittura di Nohaila.

–          Cosa sono? – sussurra.

–          Cosa ti sembrano? – l’amica gli risponde canzonandolo con lo stesso bisbiglio cospiratorio.

–          Dei fogli pieni di scritte – obietta Luca, aggrottando le sopracciglia – anche in altre scatole ce ne sono di simili?

–          Ce ne sono di simili in tutte le scatole – precisa Nohaila – e per inciso, non sono semplicemente “fogli scritti”. Sono racconti.

–          Racconti?

La sua amica alza gli occhi al cielo: – Sì, sì, racconti! Favole, fiabe, novelle, storie, sai… cose così! Ne hai mai sentito parlare?

–          Certo che ne ho sentito parlare – adesso è il turno di Luca di spazientirsi – solo che non riesco a capire perché mai passi il tuo tempo a copiare dei racconti, per poi chiuderli in scatole da scarpe e chiudere a loro volta le scatole da scarpe nell’armadio.

Nohaila lo guarda ancora per un secondo, come dubitando della sua sanità mentale, poi scoppia improvvisamente a ridere. Ha riso molte volte da quando si sono conosciuti, ma mai in modo così spudoratamente allegro: Luca sospetta che, sotto sotto, quella risata non sia altro che un trucco per nascondere un po’ di imbarazzo, anche se proprio non ne afferra il motivo.

–          Non sono racconti copiati – precisa infine la sua amica – sono racconti scritti.

Piccola pausa, in cui Luca non smette di inarcare le sopracciglia.

–          Scritti da me – conclude Nohaila, esasperata.

Luca spalanca gli occhi: – Li hai scritti tu? – chiede, alzando la scatola con aria di deferenza, neanche fosse una reliquia – Tutti questi?

–          Sì! – approva lei con enfasi, come a rallegrarsi del fatto che lui abbia finalmente compreso – E anche questi – conclude, indicando la pila di scatole accatastate nell’armadio.

–          Perché?

La domanda dell’amico sembra coglierla di sorpresa; Nohaila ci pensa un attimo e poi ribatte:

–          Beh, per lo stesso motivo per cui tu ti porti dietro l’inalatore, immagino.

–          Scrivere ti aiuta a respirare? – sorride Luca.

–          No. Mi aiuta a vivere – precisa lei, seria.

Per un po’, entrambi rimangono in silenzio, mentre Luca metabolizza l’informazione e Nohaila non smette un secondo di osservarlo, come invitandolo ed insieme sfidandolo a fare nuove domande.

Non ce ne sono. Luca solleva il primo foglio e fa per mettersi a leggere, ma Nohaila lo ferma quasi subito:

–          Ehi, che fai?

–          Come, che faccio? – alza le spalle – Leggo, no?

–          No! – l’amica gli strappa il foglio dalle mani – Certo che no! Non si legge mai sotto il naso dello scrittore! O, in questo caso, della scrittrice.

–          E questa dove l’hai sentita? E in ogni caso, tu saresti una scrittrice?

Luca ridacchia. Un attimo dopo è già pentito e teme di averla ferita, ma Nohaila non se la prende: sorride ed alza la testa, fiera e tranquilla come al solito.

–          Lo sarò, un giorno – dice.

–          Davvero? – Luca ripone di nuovo il foglio nella scatola.

–          Sì – Nohaila la chiude, nascondendo sotto il coperchio quello che per lei sembra un intero mondo di possibilità ma che, per Luca, altro non è che una pila di foglietti sdruciti.

–          Come fai ad esserne così sicura? – le chiede.

Nohaila alza le spalle: – Non lo sono – poi fa il suo solito sorriso – So solo che questo è quel che voglio fare per tutta la vita.

–          Credi che basti? – chiede ancora Luca.

Si sforza di sembrare soltanto interessato, ma teme che un po’ del suo scetticismo sfugga comunque al filtro applicato alle sue parole.

–          Beh, credo che sia importante sapere cosa sperare – ribatte Nohaila – ed anche inseguire i sogni, sempre. Senza condizioni o pause, senza mai perdersi d’animo. Solo così potrai capire se avresti mai potuto farcela.

Lo sta di nuovo fissando con quell’aria terribilmente intensa. Luca si sforza di sostenere il suo sguardo, poi lo fa vacillare.

–          A volte parli come se avessi già cinquant’anni – mugugna.

Nohaila ride: – Beh, tu ti comporti da pensionato tutti i giorni!

Pausa. Due occhi cercano e ne trovano altri due. Nuovo silenzio si aggiunge a quello che già gravava sulla stanza, ma senza appesantirla: per una volta, nessuno dei due è imbarazzato né offeso.

Entrambi osservano. E crescono.

–          Facciamo i compiti?

–          D’accordo.

Seduto al fianco della sua nuova amica, dell’unica vera amica che abbia mai avuto, Luca svolge gli esercizi con la testa altrove. Pensa ai sogni di Nohaila, racchiusi in tante scatole da scarpe; ai suoi fratelli che, ogni notte, vegliano sul suo sonno dall’alto di una cornice; alle parole di una bambina ancora capace di sperare, mentre l’unica cosa che lui sappia fare è dubitare dei sogni degli altri.

Ne dubita perché non ne ha di propri, perché nessuno gliene ha mai nemmeno parlato, del fatto che si possa sognare; perché per suo padre l’immaginazione è sempre stata una gran perdita di tempo, buona solo ad illudere.

Lo dice anche a Nohaila, ad un certo punto: – Mio padre pensa che i sogni non servano a niente.

Lei scrolla le spalle e sorride gentilmente: – Forse la pensa così perché non ne ha mai avuto uno veramente importante. O forse lo ha avuto, ma non ha funzionato.

In quel momento, il campanello suona.

–          Tua mamma è venuta a prenderti.

–          Già.

Nohaila si alza per accompagnarlo alla porta. Passando accanto alla scatola da scarpe, ancora chiusa sul pavimento, Luca sente all’improvviso un strana curiosità, come un bisogno irrinunciabile di aprirla di nuovo, di poter davvero passare le dita tra quei fogli, leggere qualche parola, farsi un’idea di come sia fatto un desiderio.

–          Perché non mi dai un racconto? – chiede, indicando la scatola.

–          No, mi dispiace – è la secca risposta.

–          Avanti, uno soltanto – si rende contro di essere sul punto di supplicarla – Cosa ti costa? Me lo leggerò a casa, lontano dagli occhi dell’autrice, come hai detto tu; non lo farò vedere a nessun altro e domattina te lo riporterò a scuola, promesso!

–          No Luca, non puoi leggerli: non sono pronti.

–          Vuoi dire che tutti quei racconti lì dentro sono ancora incompleti?

–          Sì – gli occhi scuri della sua amica scintillano.

–          Secondo me sei tu che non sei pronta.

Nohaila lo guarda a lungo. Luca non si sofferma neanche a chiedersi se l’abbia offesa: è troppo forte il bisogno di scoprire quali siano i suoi sogni, i suoi segreti. Forse dovrebbe chinarsi, arraffare un foglio a caso e scappare via: lei è uno scricciolo, non riuscirebbe mai a fermarlo. Poi, però, la vede tremare.

È piccola, sì, ma in una sola settimana è diventata il suo universo: qualcuno che gli sieda accanto, che gli rivolga la parola, rida e scherzi e lo inviti perfino a fare i compiti. Non può rovinare tutto.

–          A domani, allora – saluta, poi si volta per andarsene.

È in quel momento che si trova di fronte quel volto. Ed è in quel momento che grida, forte, facendo anche un balzo indietro e inciampando nella scatola. I fogli si rovesciano sul pavimento, scomposti, liberi, ma nessuno si preoccupa di raccoglierli. L’affanno prova di nuovo a soffocarlo nella sua morsa ma Luca, senza neanche accorgersene, lo caccia via: è troppo spaventato persino per perdere la lucidità. Si rende conto di non aver ancora smesso di gridare solo quando Nohaila sbotta:

–          Basta!

Luca chiude la bocca, interrompe il grido e all’improvviso si accorge che quel volto è collegato ad un corpo, un bel corpo di donna vestito di jeans. Solo che non è il viso di una donna e nemmeno quello di un umano. È il viso di un mostro.

–          Ciao, mamma – esclama Nohaila, come se niente fosse – allora eri tu al campanello! Sei tornata presto, oggi. Vieni, ti presento il mio amico.

Luca, ancora sotto shock, ispeziona rapidamente con lo sguardo la minuscola stanza e giunge alla conclusione che, non essendoci nessun altro, la madre di Nohaila debba necessariamente corrispondere all’essere di fronte a lui; si sente come pietrificato, mentre il suo sguardo non riesce a scollarsi da quella maschera sfigurata, amorfa, disciolta, al centro della quale due occhi bruni brillano come se al loro interno ardesse un fuoco. Proprio come quelli di Nohaila.

Poi, quella maschera grottesca si contrae e dal foro raggrinzito che dovrebbe costituire la bocca escono delle parole. Le parole si inseguono e formano una specie di musica e Luca, come per incanto, non ha più paura: quella cosa di fronte a lui ha la stessa voce e gli stessi occhi della sua amica. Non è un mostro. È una mamma.

–          Ciao Luca, io mi chiamo Zahira – dice – Piacere di conoscerti. Nohaila mi ha parlato molto di te.

E, all’improvviso, accade: qualcosa di gonfio e pesante che gli invade il petto e gli toglie il respiro, ma in un modo diverso dal solito. Un inalatore non potrebbe nulla contro questo mix di rabbia e tristezza. Non ha mai considerato prima, neppure per un istante, l’ipotesi di poter essere geloso.

Scuote forte la testa, come se con un semplice gesto potesse riordinare i pensieri. Nohaila le ha parlato molto di lui. Gliene ha parlato. A sua madre.

Eppure, in tutti quei giorni, sembra non aver trovato neanche un momento libero per dire a lui di avere una mamma dal volto quasi completamente sciolto, due fratelli e un armadio pieno di sogni.

In quella casa tanto piccola, Luca si sente improvvisamente di troppo: è come se la stanzetta di Nohaila fosse insufficiente a contenere tutte le sue emozioni; emozioni che ha appena scoperto di provare ed alle quali non può ancora dare un nome.

–          Scusatemi – riesce a biascicare – sono in ritardo.

E se ne va così, senza meta, senza voltarsi indietro, senza salutare. Non torna sui suoi passi nemmeno al sentire Nohaila chiamare il suo nome: poco più di un flebile sussurro, carico di quelle lacrime che lui non vedrà mai scorrere sul suo volto, perché è già troppo lontano.

Giovedì mattina. Un umido ed uggioso giovedì.

La maestra Viviana se n’è appena andata, dopo aver propinato loro il classico, sciocco, noioso film tv strappalacrime, registrato su una videocassetta regolarmente difettosa. Tutto come sempre.

Quel che è cambiato, ormai da tre giorni, è l’atteggiamento di Nohaila, chiusa in un mutismo ostinato fin da quello sfortunato pomeriggio. Siede in quella classe, certo, ma è come se non ci fosse più davvero: interviene nella lezione solo se interpellata e passa il resto del tempo a fare scarabocchi senza senso sulle pagine del suo blocco da disegno; si sposta per i corridoi con gli occhi puntati a terra, gli angoli della bocca piegati all’ingiù, cammina rasente i muri, proprio lei che ha sempre fatto tante storie sul tenere alto lo sguardo.

Ha staccato il suo banco da quello di Luca, non di tanto, giusto il necessario a fargli capire di non invadere il suo spazio. Cinque centimetri di vuoto. Per lui sarebbe più facile oltrepassare un oceano.

Vorrebbe parlarle. Vorrebbe anche che lei parlasse con lui, che si confidasse. Vorrebbe essere davvero parte della sua vita, capire i suoi sogni, i suoi segreti. Leggere i suoi racconti. E invece, nel desiderio di sapere, di conoscerla a fondo, sta probabilmente mandando tutto alle ortiche, perdendo definitivamente una cosa tanto preziosa. Sempre che non l’abbia già persa.

Rimane muto, con la testa china sul banco. Non c’è motivo di alzare gli occhi se anche lei tiene bassi i suoi.

Due giorni fa ha avuto un nuovo attacco. Quando ha sentito l’affanno arrivare si è guardato attorno: Nohaila era lì, accanto a lui, ma allo stesso tempo era anche lontana, irraggiungibile. Luca ha aspettato, ansimando, il tempo necessario ad essere certo che non l’avrebbe aiutato, che stavolta non l’avrebbe tenuto incollato al mondo grazie alla forza dei suoi occhi, che avrebbe dovuto cavarsela da solo. Poi ha preso l’inalatore ed ha inspirato, chiudendo le palpebre, illudendosi di riuscire a non vedere, a non pensare di aver già rovinato tutto. Quando ha riaperto gli occhi, ha visto Nohaila distogliere rapidamente i suoi ed ha sentito i risolini dei compagni. E così ha capito che tutto stava andando a rotoli.

Sono ricominciate le notti insonni: ha trovato la piccola stella sempre lì, ad aspettarlo, ad osservarlo quasi con aria di rimprovero per averla tralasciata dormendo. Dormiva perché, per la prima volta, aveva un motivo per cui sentirsi vivo di giorno.

Sono ricominciate anche le prese in giro: se prima, dopo il breve battibecco con Chiara e Martina, tutti sembravano aver deciso di lasciare in pace Nohaila e, di conseguenza, anche il suo nuovo migliore amico, ora stanno improvvisamente tornando alla carica. Quando sei debole e per di più solo, diventi un bersaglio troppo affascinante. Nohaila è sola, però è anche forte; nessuno osa confrontarsi con la sua glaciale rigidità e così, seppur indispettiti dalla sua mancanza di considerazione nei loro confronti, la lasciano in pace, chiusa nel suo mutismo. Luca, come da copione, è tornato invece a ricoprire il ruolo che in quelle due settimane, per la prima volta dopo cinque lunghi anni, gli era sembrato di essere finalmente riuscito ad abbandonare: il capro espiatorio.

–          Ehi, quattrocchi – lo apostrofa Matilde all’improvviso – a che pensi, quando assumi quell’aria così sveglia?

Risate. Luca abbassa lo sguardo sul quaderno; non reagisce, non parla, a malapena respira, prega che la maestra Lucia arrivi il prima possibile.

–          La vita dev’essere dura senza la tua amichetta lì a difenderti, non è vero? – continua Martina.

–          Beh, dovrebbe saperlo… dopotutto, ha passato parecchio tempo da solo con noi, prima di potersi nascondere dietro al grembiule di una femmina – ridacchia Jacopo.

Altre risate. Luca scorge Nohaila, così vicina a lui, quasi completamente nascosta dietro il libro di scienze.

–          Ah, ma lasciatelo in pace… non è altro che un poveretto – dichiara Stefano, con tono sprezzante – Non capisco proprio che gusto ci proviate. Non vedete che non reagisce nemmeno?

Luca, sempre in silenzio, sempre a testa china, prega che gli diano retta, che lo lascino stare.

Non funziona.

–          Oh, andiamo… è divertente – non ha bisogno di alzare lo sguardo, Luca, per vedere il sorrisetto sardonico assunto da Matteo nel pronunciare quelle parole: – Cosa faremmo senza un personaggio simile in classe? Ci annoieremmo tutto il giorno, non è vero?

–          Eh sì!

–          Decisamente sì!

–          Bravo Matteo, hai ragione!

La classe esulta, ride, batte quaderni e penne sul banco per manifestare ancor più energicamente il suo punto di vista. Al centro di quella marea impietosa, i banchi di Luca e Nohaila sembrano un’isoletta deserta, un atollo tranquillo e silenzioso che rischia ogni giorno di venire sommerso un po’ di più, magari fino a scomparire, a soccombere del tutto. Un atollo diviso, ora, da una spaccatura profonda, buia, spaventosa.

–          Ehi, Luca – di fronte a lui, appoggiata ad un angolo del banco, Chiara si ravviva i capelli ed esibisce il suo solito, stupido sorrisetto – mi presteresti il quaderno di scienze, per favore?

I compagni si zittiscono, in attesa. Luca percepisce perfettamente il mutare dell’atmosfera: stanno tutti aspettando l’ennesimo episodio che dimostri che sì, è proprio un emerito fesso. Non gliene importa niente: l’unica persona che l’abbia mai visto come un amico, non solo come un ridicolo spot televisivo, l’unica che sia mai riuscita a convincerlo a lottare, ad opporsi alla marea, a non farsi mettere i piedi in testa da nessuno, ora siede silenziosa e remissiva al suo fianco, con gli occhi bassi. Non c’è più niente per cui valga la pena lottare.

Ma poi, all’improvviso, in una di quelle frazioni di secondo che così, di botto, sono capaci di capovolgere una vita, qualcosa accade: con la coda dell’occhio Luca vede Nohaila alzarsi, le mani sui fianchi, a fronteggiare Chiara ancora una volta. E, ancora una volta, solo per difendere lui. Può quasi avvertire le scintille incandescenti sprizzare dagli occhi della sua amica; sì, perché ora non ha più dubbi: è una vera amica. Un’amica che esploderà da un momento all’altro.

–          Sai cosa, Chiara? Sei solo una povera idiota.

Chiara fa un passo indietro, disorientata. La classe è sempre muta, ma quello che prima era un silenzio divertito è diventato improvvisamente attonito. Venticinque paia di occhi sono puntati su Luca che, in piedi, a testa alta, fronteggia la ragazzina davanti a lui, occhi negli occhi.

La rabbia di Nohaila non è mai esplosa, la sua bocca non si è neanche aperta: ancora al suo fianco, l’amica che Luca credeva di aver perso lo guarda con occhi pieni di ammirazione, mentre un sorriso si dipinge pian piano sul suo volto.

–          Siete tutti degli idioti – Luca si sofferma con lo sguardo su ognuno dei suoi compagni – e non ho alcuna intenzione di farvi copiare i miei esercizi. Non riceverete più alcun favore da me, perché l’unica cosa che voi abbiate fatto in questi cinque anni è stata insultarmi. E volete sapere qualcos’altro? Mi fate pena. Avete bisogno di offendere le persone per sentirvi forti, di coprirle di insulti e prese in giro per acquistare la simpatia degli altri. Volete prendervela con me? Fate pure, non reagirò. Non mi interessa. L’importante è che sappiate di essere degli emeriti cretini.

Silenzio.

Chiara torna lentamente al suo posto; Jacopo è talmente stupito da non battere più nemmeno le ciglia, Gianluca ostenta un’espressione ebete, Sara sgrana gli occhi all’indirizzo di Marco e Luisa. Nessuno parla più.

A Luca sembra di essersi appena risvegliato da un sogno molto strano; ricorda perfettamente le parole appena pronunciate, eppure trova qualche difficoltà nel credere che siano uscite proprio dalla sua bocca. Fa un bel respiro, sente l’aria entrare tranquillamente nei polmoni.

Si siede, prontamente imitato da Nohaila.

–          Ma che silenzio! Bravi, bambini, sono molto contenta – la maestra Lucia è arrivata, infine.

Gli occhi di Luca cercano istintivamente quelli di Nohaila e li trovano già lì, fissi, ad aspettarlo. Ogni preoccupazione scompare nella profondità infinita di due iridi scintillanti.

Seduti a gambe incrociate sul pavimento, uno di fronte all’altra, Luca e Nohaila si guardano ancora una volta negli occhi. Luca si è scusato così tante volte da averne quasi dimenticato il motivo, forse anche perché non ce n’è mai stato uno. Nohaila l’ha perdonato subito, forse anche perché non c’era nulla da perdonare.

Poi, come di comune accordo, si sono zittiti, limitandosi a fissarsi e basta.

–          Sei stato forte, oggi – Nohaila rompe infine il silenzio – credevo che non l’avresti mai fatto. Ma, probabilmente, bisognava solo aspettare il momento giusto.

–          Se tu non ti fossi alzata, non avrei fatto proprio niente – ammette lui – sei stata tu a farmi scattare, come una molla; come quella volta che non riuscivo a respirare e tu mi hai aiutato a ricordarmi come fare.

Luca abbassa gli occhi, incespica nelle parole, sente il rossore affluirgli al volto e gli viene anche un po’ di affanno. Poi, però, rialza lo sguardo e continua, va fino in fondo, perché quelle cose gliele deve dire adesso, subito, prima che lei si allontani di nuovo. E allora si butta:

–          Sei sempre tu a darmi un motivo per agire, per cambiare qualcosa. È grazie a te che trovo la forza. Non voglio che mi lasci solo, mai più – è andata, l’ha detto.

Nohaila lo guarda a lungo, pensierosa. Alla fine dice:

–          Devo raccontarti una storia. Una storia che parla della mia famiglia.

–          D’accordo, ti ascolto.

Non sembra facile per lei cominciare a parlare: si agita, stringe una mano con l’altra, scuote la testa e fa girare gli occhi attorno per la stanza. Luca la osserva: – Aspetta – dice – ti faccio vedere una cosa.

Si alza, corre verso l’interruttore e spegne la luce.

–          Ma che stai facendo?

–          Guarda su.

A tentoni, Luca torna a sedersi sul pavimento; sopra le loro teste brilla una piccola stella.

–          Che cos’è? – chiede ancora Nohaila.

Luca non può fare a meno di pensare al giorno in cui è stato lui a fare quella domanda, a suo padre, tanto tempo fa. In quel momento gli era sembrata una cosa stupida da chiedere; in quel momento, quella stellina era solo un pezzo di plastica; ora è un pezzo della sua vita.

Ci vorrebbe troppo per spiegarlo. E poi, oggi c’è già un’altra storia da ascoltare.

–          Raccontami – dice soltanto.

Ci sono cose che possono essere dette solo al buio, al massimo sotto una piccola stella, che faccia luce sugli innumerevoli perché dell’esistenza. Parlare nel buio è come parlare al nulla, confidarci soltanto con noi stessi, anche se sappiamo che qualcuno, al di là di quell’oscurità, sta ascoltando.

Ci sono persone speciali, a cui sentiamo di poter raccontare tutta la nostra vita, e ci sono momenti adatti a parlare, che vanno colti al volo, per evitare che si perdano per sempre assieme al coraggio di buttarsi.

Nohaila si butta. E, senza più pensarci, comincia il suo racconto:

–          Quando mia madre viveva in Afghanistan era sposata con un uomo di nome Husam. Un uomo cattivo. La obbligava a portare il velo sul viso e la picchiava spesso, solo perché lei avrebbe voluto vivere un po’ più liberamente: camminare da sola per strada, senza essere accompagnata da un maschio della famiglia; prendere le proprie decisioni riguardo i figli, i miei due fratelli, e non restarsene solo a guardare; parlare con altre persone senza dover prima chiedere il permesso. E magari, un giorno, vestire all’occidentale, con il viso scoperto e i capelli sciolti. Solo per capire cosa si provasse. Ma Husam, al solo sentirne parlare, diventava violento e, quando neanche le botte funzionavano più, allora puniva mia madre, impedendole di vedere i miei fratelli. Questo per lei era il castigo peggiore, quindi continuava ad obbedire.

Nohaila parla rapidamente, come se avesse fretta di scrollarsi di dosso una storia tanto angosciante. Dalle sue parole non traspare nessuna emozione. Dopo una piccola pausa, riprende:

–          Un giorno, mia madre si è innamorata di un altro uomo. È successo, semplicemente, e quando se n’è accorta era già troppo tardi. O almeno, così dice lei. Quest’uomo si chiamava Salim; era bello e forte e soprattutto gentile: continuava a dirle che se fosse dipeso da lui, mia madre avrebbe potuto indossare i pantaloni, sentire il vento nei capelli, ogni volta che avesse voluto. Le diceva anche che avrebbero dovuto fuggire insieme, lontani da lì, da suo marito, anche se sapeva che mia madre non avrebbe mai abbandonato i suoi figli.

–          Cos’è successo poi? – chiede Luca, intuendo per la prima volta un amaro cambiamento nel tono della sua amica.

La risposta di Nohaila arriva come il colpo di un tuono, ancor più irruenta e spaventosa a causa dell’impassibile rassegnazione con cui viene pronunciata:

–          Husam ha scoperto tutto ed ha ucciso Salim.

–          L’ha ammazzato? – esclama Luca, sbigottito – Dici sul serio?

–          Sì – il tono di Nohaila è sempre più grave – In Afghanistan le cose non funzionano come qui da noi. Husam ha ucciso Salim e poi ha gettato dell’acido in faccia a mia madre. È per questo che il suo viso è così… beh, così.

–          Acido? – Luca sente lo stomaco contorcersi.

–          Sì. Ma non è questa la cosa peggiore.

–          Che può esserci di peggio?

–          Questo: Husam ha detto a mia madre che non avrebbe mai più visto i miei fratelli, Ahmed e Farouk; che avrebbe fatto meglio ad andarsene, subito, perché se l’avesse mai rincontrata avrebbe ucciso anche lei.

Nohaila si interrompe bruscamente. Luca capisce quanto le costi parlargli di questo, ma ormai non potrebbe fermarsi in nessun caso. Ha scelto di raccontare. Il buio attorno a loro sembra vibrare.

–          E poi? – le chiede.

–          Mia madre non ha potuto nemmeno salutare i suoi figli, è dovuta andar via subito – una piccola pausa – E sai qual è la cosa peggiore?

Un’altra. Luca non è certo di volerla sapere, ma sa che deve.

–          Cosa? – chiede.

–          Lei avrebbe volentieri affrontato la morte, piuttosto che una vita lontana dai suoi figli; ma ha scelto la fuga, e la vita, per me.

–          Per te?

–          Già. Mia mamma era incinta quando scappò e venne qui in Italia. Non lo sapeva nessuno, tranne lei.

Un silenzio strano, innaturale, segue queste parole. Nohaila non sembra voler aggiungere altro, quindi Luca obietta:

–          Non siete mai tornate in Afghanistan, giusto?

–          Giusto.

–          Quindi tuo padre non sa nemmeno della tua esistenza.

Silenzio. Luca si maledice mentalmente. Che frase idiota.

–          Certo che no – ribatte infine Nohaila – È morto, te l’ho detto.

–          Cosa?

–          Salim era mio padre.

Luca rimane a bocca aperta: – Ne sei sicura?

–          Sì.

–          In che modo?

–          Me lo ha detto mia madre.

–          E lei, come fa ad esserne sicura?

–          Lo sa e basta – anche al buio, Luca capisce che Nohaila ha alzato gli occhi al cielo – Certe cose si sanno così, semplicemente, senza bisogno di prove!

La voce della sua amica ha assunto un tono stizzito e l’ultima cosa che lui voglia è farla arrabbiare di nuovo; rimane in silenzio.

Nohaila riaccende la luce e, al dissiparsi delle tenebre, Luca si sente improvvisamente esposto, debole. È come se fosse schiacciato, oppresso dal peso delle tante rivelazioni.

Forse, in fin dei conti, avrebbe preferito non sapere.

–          Comunque – aggiunge Nohaila, tirando fuori qualcosa dalla tasca dei jeans – se guardi questa non avrai più dubbi. Non vedi come mi somiglia?

Luca prende la foto, titubante; strizzando gli occhi per riabituarsi alla luce, la avvicina al volto e scorge i sorrisi di due giovani indiscutibilmente innamorati, stretti in un tenero abbraccio.

La donna è bellissima: lunghi ricci neri le ricadono, liberi, sulle spalle, ad incorniciare un sorriso carico di tanti sentimenti contrastanti: amore, tristezza, paura, incertezza si confondono nella dolcezza dei suoi lineamenti; è così simile a Nohaila che Luca non ha dubbi sulla sua identità. Quanto all’uomo, la sua espressione è scherzosa ed affabile; stringe la donna come pervaso dal timore che gliela portino via. O, forse, è soltanto il ricordo della storia appena ascoltata che gioca brutti scherzi all’immaginazione di Luca.

–          Allora? – chiede Nohaila.

–          Tua madre era proprio bellissima – dice lui – ti somigliava molto. Peccato che…

–          Che sia ridotta ad una specie di mostro? – la voce della sua amica è pungente.

–          No – precisa Luca – quel che avevo intenzione di dire è: peccato che sia stata costretta a coprire il suo volto quand’era ancora così bello.

–          Uomini – Nohaila scuote la testa, però non è arrabbiata, quasi sorride – ma non capisci? Il suo aspetto non ha alcuna importanza. In tanti le hanno chiesto, e continuano a chiederle, perché non si copra il viso in qualche modo, perché non faccia un intervento chirurgico o qualcosa del genere. Vuoi sapere cosa risponde, sempre?

–          Cosa?

–          Che per tenere quel volto scoperto, per sentire il vento tra i capelli, la pioggia sulla pelle, per essere una donna libera, ha pagato a sufficienza. E che quelle cicatrici servono a ricordarle ogni giorno la colpa commessa, per la quale i figli le sono tenuti nascosti e lontani da undici anni. E che in fondo, però, non si pente di aver peccato, perché nonostante tutto e nonostante tutti, da quel peccato sono nata io.

In quel punto la voce le trema. Luca alza lo sguardo, già un po’ in panico, certo di vedere le lacrime rigarle il volto.

Lo sguardo che Nohaila gli restituisce è completamente asciutto.

–          Allora? – gli chiede – Hai ancora dubbi sul fatto che sia figlia di Salim, dopo aver visto quanto gli somiglio?

Luca torna a guardare la foto. Sul volto del giovane uomo non scorge alcun tratto così palesemente rintracciabile nelle espressioni della sua amica.

Poi guarda meglio Nohaila e legge nei suoi occhi tanta voglia di sentirgli dire quelle parole, quella piccola, innocua bugia che, in fondo, potrebbe anche essere la verità.

–          Hai ragione – sorride – vi somigliate un sacco.

Perché in fondo le somiglianze che scegliamo sono molto più importanti di quelle imposte alla vista. E soprattutto, sono anche le più vere.

Ogni cosa bella è destinata, prima o poi, a finire. Lo sono tutte le cose, in fondo, anche quelle brutte, ma allora perché le più piacevoli sembrano durare sempre meno delle altre? I giorni felici scorrono via veloci, lasciando dietro di sé solo ricordi; sono meglio di niente, i ricordi, ma alla fin fine non servono ad altro che a tenerti sempre ben presente l’enormità di ciò che hai perso.

Luca non dimenticherà mai la sistematica precisione con la quale, in pochi rapidi e caotici giorni, tutto gli venne improvvisamente portato via.

È una domenica mattina di inizio maggio, verso le nove, quando un’agitatissima Nohaila fa il suo ingresso in casa di Luca e si fionda in camera sua, buttandolo giù dal letto.

–          Leggi un po’ qua – dice, con tono angosciato, gettandogli un foglio in grembo.

Luca si passa una mano sul volto e prende gli occhiali dal comodino; i suoi occhi velati dal sonno impiegano un po’ a mettere a fuoco la fitta scrittura che ricopre il biglietto.

“Tesoro mio,

sei una bambina intelligente ed hai sempre saputo che, prima o poi, questo giorno sarebbe arrivato. Ti lascio con la speranza di poterti riabbracciare presto; lo sa Dio quanto ti voglio bene, ma non riesco a sopravvivere un giorno di più a questa lacerazione, che mi porto nel petto da quando ho lasciato i tuoi fratelli. Conosco i rischi che sto correndo, ma so anche che, nonostante crescerti e renderti felice sia stata la cosa migliore che abbia saputo fare, non sarò mai in pace con me stessa finché non rivedrò anche loro, Farouk ed Ahmed, che ho lasciato tanto tempo fa.

Voglio che tu sappia che ti amerò sempre e spero che mi perdonerai.

La tua mamma”.

Ed è un venerdì mattina, appena cinque giorni dopo quell’angosciante domenica, quando tutto, infine, sembra bloccarsi, congelarsi. Nella classe di Luca e Nohaila fa il suo ingresso un tipo alto e smilzo, dal volto terribilmente smorto, che confabula per un bel pezzo con la maestra Lucia, destando la curiosità di tutti i bambini. Quando l’insegnante torna a guardare la classe, tutti possono scorgere la sorpresa e la tristezza sul suo volto.

–          Nohaila, tesoro – dice, con il tono solitamente usato per rivolgersi ai malati gravi – questo signore deve dirti una cosa molto importante; perché non andiamo tutti in un luogo più adeguato?

Nohaila si alza in piedi. Il suo volto è terreo, probabilmente ha già capito tutto. Esce dalla classe a testa alta; il solito sguardo fiero è permeato, questa volta, da un’indicibile angoscia. È come se guardasse il mondo attorno a lei da molto, molto lontano. La maestra e lo strano tipo la seguono a ruota. Tra le frenetiche congetture dei suoi compagni di classe, Luca abbassa lentamente lo sguardo sul banco.

La vita ti spinge avanti. Poco importa che tu non abbia nessuna voglia di muoverti, che il tuo unico, impossibile desiderio sia rinchiuderti dentro te stesso ed aspettare che tutto finisca, che niente abbia più un senso; anche perché, poi, quante cose ne hanno davvero uno? La vita ti stringe nella sua morsa e ti costringe a lottare, a guardare avanti, anche se ti senti perso, anche se i tuoi occhi vorrebbero solo abbassarsi, carichi di un peso troppo grande per poterlo sostenere. Giorno dopo giorno, il tempo passa, portando via brandelli di sogni, ricordi, pensieri, parole. Portandosi via anche e perfino cose che, neanche troppo tempo fa, avresti ritenuto indispensabili alla tua stessa vita.

Da qualche anno, la stella sul soffitto ha perso la sua luce ed ora se ne sta lì, inutile, immobile, un pezzo di plastica qualsiasi, a vegliare anche da spenta sui sonni irrequieti di un adolescente.

Il suono monotono e fastidioso di una sveglia digitale si espande improvvisamente nella stanza, scuotendola dal suo torpore e regalandole lo splendore di un nuovo sole. Luca fa emergere una mano dalle coperte per interrompere quell’odioso lamento, quel suono perentorio ed insistente che, ancora una volta, viene a decretare l’inizio di un’inutile giornata.

–          Tanti auguri, tesoro!

Sua madre è sulla soglia della stanza, con un bel sorriso stampato in faccia ed un pacchetto giallo in mano. Si avvicina rapidamente e lo bacia sulla fronte, poi depone il pacco ai piedi del letto.

–          Ci vediamo giù a colazione, va bene? – chiede.

Senza aspettare risposta, in un attimo è già scomparsa oltre la porta, chiudendosela alle spalle. È sempre stata molto attenta a non rimanere fra i piedi più dello stretto necessario.

Luca sa che deve aprire quel pacchetto, anche se non ne ha la minima voglia. Non vorrebbe nemmeno alzarsi dal letto, fare la doccia, vestirsi, scendere in cucina per la colazione ed affrontare un altro interminabile giorno, soprattutto non con la consapevolezza di un altro inutile anno andato ad aggiungersi alla sua monotona storia.

Prende il pacchetto e lacera senza tanti complimenti la sgargiante carta gialla. Un maglione azzurro cade sul copriletto, seguito da un biglietto di auguri e dalla chiave di una macchina. La sua macchina, a quanto pare. Se lo aspettava: da tempo suo padre non faceva altro che preannunciare quel momento. Luca apre il biglietto e legge le poche parole scritte con un pennarello blu: “Tantissimi auguri per il tuo diciottesimo compleanno e… benvenuto nel mondo dei grandi! Mamma e papà”.

Della grafia di suo padre non c’è traccia: ha scritto tutto la mamma, come al solito. Un tempo, Luca avrebbe dato tutto, tutti i suoi costosi giocattoli, tutte le stelline brillanti del mondo, per ricevere dal padre un sorriso, un cenno di approvazione, una carezza. Un biglietto di auguri.

Adesso sa che non tutti fanno carezze, non tutti regalano sorrisi. Una macchina: il prezzo per sentirsi in pace con la coscienza ed augurare buon compleanno ad un figlio, senza alcun dispendio di sentimenti. Luca non si sente in diritto di giudicare. Non è mai stato la persona più espansiva del mondo, dopotutto. Deve pur aver preso da qualcuno. Sospira.

Balza giù dal letto ed apre l’armadio, alla ricerca di una maglietta pulita; il suo sguardo, come ogni mattina, cade subito sulla scatola da scarpe rannicchiata sul fondo. Inutile illudersi, inutile provare ad alzare gli occhi, a puntarli sul cumulo di vestiti spiegazzati. Sa che finirà per aprirla, anche oggi, che non potrà resistere; che al suo ingresso nell’età adulta, un giorno considerato da tutti così importante, ha in fondo bisogno di sentirsi ancora un po’ bambino, ingenuo ed angosciato e spaventato come in quel momento distante otto anni, eppure tanto reale e vicino da farlo ancora rabbrividire; il momento in cui, appena tornato da scuola, dopo aver cercato invano Nohaila per tutto l’edificio e perfino nel cortile, vide infine quella scatola abbandonata a sé stessa, sugli scalini di casa sua.

Le sue mani tremano leggermente mentre, per l’ennesima volta, alza il coperchio, rivelando l’ormai ben nota pila di fogli con la busta in cima. Nella busta c’è un biglietto, spiegazzato e consunto dalle troppe volte in cui è stato letto, riletto, accartocciato, ripiegato attentamente e poi di nuovo steso, neanche le parole che vi sono scritte potessero cambiare ad ogni nuovo sguardo. Le parole sono sempre le stesse, da otto anni. E, proprio come otto anni fa, fanno male. Ogni volta.

“Caro Luca,

forse hai già capito il motivo per cui ti sto scrivendo. Il signore che è venuto a scuola stamattina è un assistente sociale: mia mamma si era rivolta a lui, prima di partire per l’Afghanistan, in modo che pensasse a me nel caso qualcosa andasse storto.

Qualcosa è andato storto. A quanto pare, Husam ha mantenuto la sua promessa e adesso lei è in cielo. Spero almeno che abbia potuto rivedere i miei fratelli, magari solo per un momento, per un ultimo sguardo, prima di lasciarli per sempre. Prima di lasciare anche me per sempre.

Non pensarmi troppo. Non ho paura. Non so dove mi porteranno, non mi hanno detto molto, ma è chiaro che non posso rimanere qui. Devo andarmene e devo farlo così, senza salutare, perché altrimenti diventerebbe tutto più difficile. Perdonami, se puoi, come io ho perdonato mia mamma.

Forse è giusto che vada così, che sia successo tutto questo. Forse non lo è. Chi siamo noi per decidere? In ogni caso, me la caverò.

Guarda avanti, Luca, senza abbassare gli occhi davanti a niente o a nessuno: ricordati che me lo hai promesso. Vivi ogni giorno dandogli uno scopo, altrimenti sarà come se non lo avessi vissuto. Continua a respirare, sempre, anche senza il mio aiuto, perché in fondo non ne hai mai avuto davvero bisogno.

Ti lascio alcuni dei miei racconti, i migliori. Avevi ragione, probabilmente: ero io a non essere pronta. Forse non lo sono ancora, forse non lo sarò mai. Forse il mio sogno di diventare una scrittrice resterà soltanto un sogno. Sono comunque felice di affidarti questa parte di me, di lasciarti un piccolo ricordo, aspettando il momento in cui ci potremo incontrare di nuovo. Posso quasi vederti fare la faccia scettica, a questo punto. So che non ti piace illuderti, così come non piace a me, ma in qualche modo so anche che questo non è un vero addio. Ne sono certa: prima o poi, uno dei due ritroverà l’altro. Succederà. Dobbiamo solo avere pazienza. Dopotutto, il nostro mondo è pieno di tracce, di segnali. Basta saperli cogliere, e seguire.

Con tantissimo affetto,

Nohaila”.

Luca cammina con aria distratta, leggermente curvo sotto lo zaino. Non si cura dei passanti, delle macchine; tutti gli sfrecciano accanto il più velocemente possibile, tutti perseguono un obiettivo, hanno uno scopo da raggiungere. Lui vaga senza meta, legato a questo mondo da nient’altro che una promessa, scritta su una lettera vecchia di otto anni. Ci rivedremo. Prima o poi. Ci ritroveremo.

Vorrebbe poterci credere. Ogni tanto prova ad immaginarsela, la Nohaila ragazza, adulta. Si sforza di collocare quello sguardo acuto e penetrante sul volto di una donna, ma l’unica immagine che la sua testa si ostina a rimandargli è quella della ragazzina con le trecce, avvolta in un grembiule grande quanto una tovaglia. La ragazzina dallo sguardo fiero, che rinchiudeva i suoi sogni in tante scatole da scarpe.

Gli anni sono passati in fretta; Luca si è trascinato sui suoi stessi piedi, con l’aria annoiata e un po’ schifata di chi non abbia nulla di meglio da fare. Non ha trovato uno scopo ad ogni giorno, non ha inseguito alcun ideale, non ha imparato a sognare. È andato avanti e tanto basta.

Va ancora a scuola; si chiede ancora se mai riuscirà a comprendere il fine della propria esistenza, sempre che ce ne sia uno; passa la maggior parte del tempo in silenzio. Incenerisce con lo sguardo chiunque provi a scherzare su di lui.

Incute soggezione, Luca, adesso che non ha più dieci anni e che ha giurato a se stesso, e non solo, che non si farà mai più mettere i piedi in testa da nessuno. Così lo evitano, lo lasciano in pace, magari credendolo pazzo, svitato. Non chiede niente di meglio che starsene da solo.

Ogni tanto gli torna l’affanno, ma nelle sue tasche non c’è traccia di inalatori da tanto tempo: gli basta chiudere gli occhi e ricordare quello sguardo, per sentire di nuovo l’aria affluire ai polmoni.

E a volte si sveglia, nel bel mezzo della notte, ritrovandosi solo all’interno di una stanza completamente buia; allora si mette a pensare, a ricordare, cocciuto nel suo proposito di non dimenticare nulla di quei pochi, lontani mesi perfetti. Di non lasciare andare nemmeno un istante, nemmeno un dettaglio. Come se ricordare fosse essenziale. Come se dimenticare fosse possibile.

Attraversa la strada con gli occhi bassi, le mani in tasca. Un clacson vicino, troppo vicino, strombazza furibondo. Luca alza gli occhi: è già sul marciapiede, illeso. Un’inutile vita, la sua, affidata ogni giorno all’imprevedibilità del caso. Con noncuranza, quasi con spregio.

Si ritrova a fissare la colorata vetrina di una libreria; se la ricorda: ci veniva spesso con sua madre, da bambino. Senza pensarci si avvicina, lentamente. Forse, in futuro, si ripeterà più volte di essere stato spinto in quella direzione da qualcosa: magari un sentore, una traccia, un segnale. Forse, invece, cinico come sempre, dichiarerà semplicemente di aver avuto fortuna.

Un libro in particolare, tra quelli esposti, cattura la sua attenzione: si trova al centro esatto della vetrina e sembra attrarre a sé tutta la luce, togliendone agli altri, lasciandoli in ombra. Sulla copertina ci sono due bambini voltati di spalle, un maschio ed una femmina. Si tengono per mano e così, passo dopo passo, percorrono la strada del loro avvenire, senza preoccuparsi del presente e tantomeno del futuro, almeno finché saranno insieme, almeno finché potranno stare mano nella mano.

Luca si avvicina ancora un po’, quel tanto che basti a leggere il titolo del libro, il nome dell’autore.

Per troppo tempo ha sottovalutato l’idea di avere un cuore; per troppo tempo lo ha sentito andare avanti con i suoi battiti regolari, quasi apatici, senza interessarsene minimamente, continuando a crogiolarsi nell’inutilità dell’oggi e nell’opaca incertezza del domani.

Ora, finalmente, lo sente battere in tutto il suo giovane vigore, lo sente agitarsi e scuotersi tutto e pompare sangue per farlo vivere, vivere davvero e non solo sopravvivere.

Dopotutto, il nostro mondo è pieno di tracce, di segnali. Basta saperli cogliere, e seguire.

All’improvviso, Luca riscopre la gioia di un sorriso, un sorriso vero, mentre i suoi occhi non smettono di tracciare il contorno di quelle parole:

Nohaila Dhati