Il figlio del boia di Brentani Katia



Profilo Critico

Il primo sasso mi passa a pochi centimetri dalla tempia. Più che un sasso è un impasto di terra argillosa, quella terra grigia e opaca che si trova vicino allo stagno dove i ragazzini vanno a giocare nelle afose giornate estive.

«Bastian scappa, tanto domani non ci sfuggi!».

Mi metto a correre, mentre la pelle comincia a bruciarmi e sento le risate di scherno aumentare di tono, dietro le mie spalle.

Noto che nel gruppo c’è anche Stephane che resta in disparte con aria imbronciata.

La voce di Juan sovrasta le altre e sono sicuro che è lui a lanciare il secondo sasso che mi colpisce su una guancia.

Mi chiamo Bastian Vailant e sono figlio di Clément Vailant e Rosa Picone. Vivo in un piccolo paesino della Francia, ammesso che si possa chiamare paese un gruppetto di case spruzzate su una collina, percorsa da una strada sterrata, con una chiesa e qualche negozio.

Abito in fondo alla strada, vicino alla fontana vecchia, l’ultima casa del paese senza giardino, senza patio e sempre con le tende abbassate. Possediamo solo uno stretto cortile, circondato da un alto muro, che si trova dietro la casa e dalla strada non si vede. Una stretta striscia di terra fangosa dove mia madre coltiva fiori e ortaggi. La gente mormora che sia il luogo dove si allena mio padre per il suo lavoro. Mio padre che non fa il falegname, il maestro o il medico, ma il boia.

La nostra è la casa del boia, la fontana è la fontana del boia e io sono il figlio del boia.

Un marchio indelebile che mi accompagna dalla nascita, che fa di me un paria, uno da evitare ad ogni costo.

Mi fermo vicino ad un campo dove crescono spontanee le ortiche per riprendere fiato e mi viene in mente di strofinare sulla faccia, con forza e rabbia, alcune foglie nella speranza che questo possa coprire il danno fatto dall’argilla. Non voglio che mia madre si preoccupi, anche lei vive come un’appestata, ma so che riesce a sopportarlo se io continuo a frequentare la scuola e a recitare la mia parte nella commedia che io e lei ci siamo inventati: fare finta che tutto vada bene.

Mi vede tornare con i vestiti stracciati, i graffi sul viso, sa delle continue minacce e dei soprusi che subisco a scuola, del fatto che tutti mi evitano. Conosce la solitudine che mi accompagna, la tristezza, il rancore, l’odio che avverto attorno a me perché sono sensazioni che prova lei stessa, ma fa finta che per me non esistano e continua a trascinare, giorno dopo giorno, la sua scialba esistenza sorretta soltanto da questa ragnatela di finzione e menzogne che abbiamo costruito come uno scudo a difesa della nostra stessa fragilità.