La donna più vecchia del mondo di Raimondi Daniela



Profilo Critico

Questo componimento di Daniela Raimondi affronta con lucido spirito di
analisi ed efficacia espositiva i temi della vecchiaia, della morte e della
destinazione ultima dell’essere umano, una volta che questi ha scoperto di
aver vissuto centoventinove anni sulla terra “senza avere un solo giorno
felice”.
Si tratta di prendere atto di un dato sempre più evidente: l’anima realizza di
aver avuto, da sempre, per compagni i morti, “liberi dal peso dei corpi e dei
ricordi”. Tale consapevolezza retrospettiva si coniuga con l’oscuro,
insopprimibile, sentore di un destino immanente che l’io profondo si sente
chiamato a realizzare, in modo che la metafora dell’“angelo” possa rivelarsi
all’immaginazione e salvarci dall’esilio terrestre. Perché questo io profondo
sa, da sempre, che la morte biologica “arriverà con uno sciame di vespe
nella testa”, e che a quel momento “nulla conterà più”: il corpo giacerà
coperto di gelo e di rose, ibernato “in una miriade di stelle”. Ma tutto ciò
che accade al corpo biologico non è paragonabile con quello che l’io vede
realizzarsi nella dimensione più strettamente morale. Qui la svolta decisiva
verso la morte assume la configurazione di un “morire”, restando “con gli
occhi fissi nel sole, immobile e remota come gli affreschi della chiesa”. Il
morire come esperienza morale pone l’io profondo a diretto contatto con il
“magnifico nulla”, restando dell’io superficiale soltanto un’orma “che non
lascia impronta”.

Membro di Giuria

Prof. RICCARDO RONI

Massa, 3 maggio 2020

Non c’è spazio per me in Paradiso
e la colpa è di Dio.
Ho vissuto per centoventinove anni sulla terra
senza avere un solo giorno felice.
Cosa è successo al tempo, e agli anni,
a tutti i giorni della settimana?
Dove vanno a morire gli uccelli,
i pesci rossi, tutte le nostre parole?

I morti ci ruotano intorno
liberi dal peso dei corpi e dei ricordi.
Ci respirano accanto
lasciandosi dietro un odore di cenere e muschio.
Chi era vissuto al mio fianco
non è che un mucchio di ossa.
L’anno scorso la mia ultima figlia
mi ha lasciato ed ora sono sola nel mondo.

Ogni sera prego l’angelo
perché scenda a salvarmi da questo esilio terrestre.
La morte arriverà con uno sciame di vespe nella testa.
Nulla conterà più: né il rumore del sangue,
né i numeri, le lettere o gli orologi.
Riposerò coperta di gelo e di rose
ibernata in una miriade di stelle.

Quando la morte finalmente verrà,
voglio restare con gli occhi fissi nel sole,
immobile e remota come gli affreschi della chiesa.
Sarò più leggera di un pettirosso,
più lieve del fiato di una formica.
Sarò l’orma che non lascia impronta,
il magnifico nulla.