Il ritorno del Cavaliere di Caputo Raffaele



Profilo Critico

“Il ritorno del Cavaliere” è un lungo racconto giallo, in cui ritroviamo – protagonista ed io narrante – Paolo Farina, cronista de La Stampa, rientrato a Torino dopo qualche anno trascorso a Genova. In una città piena di contraddizioni e dai molti volti, scostante ed aristocratica ma anche popolare ed operaia, vivificata e sconvolta dalle ondate di emigranti in fuga dalla miseria e dalla povertà, lambita da orti abusivi e campi che vanno scomparendo per fare spazio ai nuovi quartieri residenziali, il giovane cronista appassionato di storia consolida la propria carriera al giornale. Desideroso di compiacere il proprio direttore, egli rinuncia ad un breve periodo di ferie con la famiglia ed accetta di trascorrere qualche giorno in un castello immerso nelle nebbie autunnali del Cuneese con il compito di preparare un articolo dedicato alla ricchissima collezione d’arte del suo proprietario, ultimo discendente di uno dei più nobili casati del Piemonte, il borioso Conte Spada, signore di Vicoforte e Montalba. Così Paolo si trova a convivere con una multiforme compagnia di sconosciuti variamente incaricati dal Conte di curare la trasformazione della magione in museo e costretti loro malgrado ad assecondare le stravaganti e anacronistiche liturgie imposte dal padrone di casa, nostalgicamente legato ad un mondo di privilegi classisti e rituali démodé. In questo singolare circolo, il protagonista incontra, dopo anni di separazione, il fratello Andrea, vicequestore sotto copertura, giunto al castello per sventare un furto d’arte. Coinvolto così nell’indagine, Paolo si trova ad osservare – non i fatti – ma le persone che gli stanno attorno, consapevole che “nessuno è come sembra” eppure desideroso di credere, a differenza del fratello, che gli occhi trasparenti di una ragazza non possano mentire. I tasselli del mosaico si ricompongono a fatica, lasciando più di un mistero irrisolto in questa complicata truffa e facendo emergere antichi drammi, contrapposizioni di classe, sentimenti di vendetta, ingiustizie mai riparate e svelando che l’avidità è un morbo che corrompe gli animi, soprattutto quelli dei più ricchi e che non c’è alcuna correlazione necessaria tra nobiltà e rettitudine. In questo quadro percorso dalla convinzione pessimistica che “non c’è giustizia per la gente comune”, la morale corrente può essere sovvertita, poiché spesso i ladri sono più simpatici, più umani, delle loro vittime e soltanto con il tempo gli ultimi – i semplici – potranno prendersi una rivincita sulla tracotanza e la boria dei potenti.

Membro di Giuria

Massa, 3 maggio 2020

Dott.ssa ELENA LIBONE